Valutazione preoperatoria di rischio nella colecistectomia laparoscopica

E’ uscito recentemente un articolo che ritengo interessante, a proposito delle colecistectomie laparoscopiche.
Esso valuta il rischio che una colecistectomia laparoscopica possa risultare complicata ed analizza alcuni fattori che potrebbero dare una valutazione quantitativa pre-operatoria della eventuale difficoltà dell’intervento.
L’articolo è interessante anche in quanto raccoglie nella bibliografia alcuni articoli, scritti dal 1998 al 2014, che più volte hanno cercato di individuare appunto i vari fattori di rischio.
La novità di questo studio, che ha analizzato 586 colecistectomie per calcoli in elezione in un ospedale della Slovacchia, è che riguarda essenzialmente l’analisi di 9 fattori unicamente pre-operatori (e non per esempio intra-operatori) e che considera come espressione di difficoltà non la sola conversione chirurgica da laparoscopia a laparotomia, ma una valutazione “continua” del grado di difficoltà effettuata dal chirurgo operatore.
I fattori preoperatori presi in considerazione sono stati il sesso maschile, una colica biliare occorsa meno di 3 settimane prima di una chirurgia, una storia di colecistite acuta trattata in modo conservativo, una pregressa chirurgia addominale nell’addome superiore, dolore in ipocondrio destro, una difesa nello stesso settore, ed alcuni dati ecografici quali una parete della colecisti ispessita (≥ 4 mm) o idropica (diametro ≥ 4,5 cm) o atrofica. Ad ognuno di questi parametri venne attribuito un punto, mentre 2 per la chirurgia pregressa in addome superiore. La difficoltà dell’intervento venne valutata in base al tempo operatorio e da un punteggio di valutazione soggettivo postoperatorio effettuato dal chirurgo operatore (punteggi da 0= nessun problema, a 4=conversione).
Al termine si trovò una correlazione tra il tempo operatorio e la valutazione postoperatoria del chirurgo; tra il rischio preoperatorio e la valutazione postoperatoria del chirurgo; tra il punteggio preoperatorio ed il tempo operatorio. Infine si individuò una correlazione tra il punteggio preoperatorio e sia il tempo chirurgico che la valutazione postoperatoria del chirurgo che la percentuale di conversione della chirurgia.
Al termine dello studio vennero dunque catalogati 5 livelli di difficoltà (con punti 0, 1, 2, 3, ≥4) che presentavano differenze significative in tempi operatori, valutazione postoperatoria e percentuali di conversioni da una colecistectomia laparoscopica a quella laparotomia.
Il rischio 0, corrispondente a 0 punti è relativo ad un intervento semplice; il rischio 1, con 1 punto ad una chirurgia con problemi minimi; il rischio 2 con 2 punti ad una chirurgia difficile; il rischio 3, con 3 punti, ad una chirurgia molto difficile; il rischio 4, con punteggio uguale o superiore a 4, a situazioni di conversione.
Il punteggio deve comunque essere validato da altri chirurghi.

Bibliografia:
Marek Soltes, Jozef Radonak
A risk score to predict the difficulty of electove laparoscopic cholecystectomy
Videosurgery Miniinv 2014; 9(4): 608-12

Trapianti di Fegato per pazienti con problemi di alcolismo

L’alcolismo è un aspetto problematico dell’assunzione di alcol che conduce a danni clinici o a problemi psicologici (2). E’ responsabile nel mondo di circa 2,5 milioni di decessi all’anno, rappresentando il 4% delle cause di mortalità. All’alcolismo sono associate circa 60 malattie ma le cause di morte maggiore sono dovute alla epatopatia alcolica (ALD: Alcoholic Liver Disease). Quest’ultima comprende la steatosi alcolica (presente nel 90% degli alcolisti), l’epatite (25%) e quindi la cirrosi alcolica (15%) (2).
Abbiamo posto il titolo di cui sopra in quanto parliamo di due tipi di pazienti con problemi di alcool: coloro che sono affetti da una cirrosi alcolica ed i pazienti con epatite alcolica acuta.

La cirrosi alcolica è la seconda patologia in termini di frequenza, sottoposta a trapianto di fegato nel mondo occidentale. Inoltre l’8-10% dei trapianti negli USA è effettuata in pazienti con cirrosi alcolica e da virus dell’epatite C (5). In realtà la cirrosi alcolica è la conseguenza della malattia di base che è l’alcolismo. Ciò che confonde nella valutazione di questi soggetti è l’interpretazione dell’alcolismo intesa da alcuni non una malattia, ma una colpa.
La quantità di alcol sufficiente per provocare un danni epatico differisce da persona a persona ed è spesso legata a fattori genetici. E’ sufficiente una minore quantità nelle donne che negli uomini, i quanto si parla di 30gr/die di alcool nelle donne e di 50 gr/die negli uomini, per la durata di 5 anni come causa di sviluppo di una cirrosi (3). Alcuni fattori possono favorire lo sviluppo di una cirrosi: i superalcolici rispetto al vino; il “binge drinking” cioè l’assunzione di 5 o più drinks in una volta sola; bere a stomaco vuoto; l’obesità; una concomitante epatite C; fattori genetici (3,6). I pazienti con cirrosi alcolica che continuano a bere hanno una aspettativa di vita a 5 anni del 70% che però può giungere al 90% se smettono di bere (6). Per coloro che presentano già una cirrosi scompensata l’aspettativa a 5 anni è del 50% se smettono di bere, ma del 30% se continuano (6).
A causa della carenza di donatori di fegato, anche su questi pazienti cirrotici da alcol viene effettuata una selezione, ma i criteri con cui questa viene effettuata non sono uniformi tra i vari Centri di Trapianto.
Un metodo di valutazione psicosociale è il Psychosocial Assessment of Candidacy for Transplantation (PACT)(3)
Nella valutazione pre trapianto dei pazienti con cirrosi alcolica, viene richiesto di solito (85% dei centri trapianto – 6), un periodo di astinenza di 6 mesi ma questo non appare in relazione al rischio di recidiva dopo il trapianto. Ciò venne suggerito in una riunione di esperti USA nel 1997. In realtà solo dopo 5 anni di astinenza gli studi dimostrano che lo stato di sobrietà diventa serio. Tra 11 studi effettuati per individuare i fattori predittivi di recidiva solo 2 individuavano l’astinenza pre-trapianto per almeno 6 mesi (3). Gli studi dimostrano una incidenza di recidiva di assunzione di alcolici dopo il trapianto che si situa tra il 10% ed il 50% (12-46% -(2)-) con una media che si situa intorno al 30% (1) in pazienti non selezionati o non seguiti, con possibilità di discesa di tale incidenza al 13% se i pazienti vengono seguiti in modo accurato (1). In realtà l’incidenza di recidiva dopo trapianto per cirrosi alcolica è molto variabile negli studi e ciò dipende probabilmente da diversi fattori (5): la definizione stessa di recidiva; i metodi per stabilire una recidiva; il tempo di follow-up; il tipo di popolazione studiata.
E’ necessario identificare altri fattori maggiormente predittivi di recidiva (6). Alcuni Autori suggeriscono di mantenere l’impostazione dei 6 mesi di astinenza dall’alcol per le cirrosi alcoliche con MELD < 19, mentre per le altre (MELD > 19), tale periodo potrebbe essere ridotto a 3 mesi (6).
La sopravvivenza dopo trapianto dei pazienti con cirrosi alcolica non è differente da quella di pazienti trapiantati per altre indicazioni, ed è migliore di quella dei pazienti trapiantati per cirrosi da virus dell’epatite C (1) o per cirrosi alcolica e da virus C concomitanti. Le cause di morte nei pazienti trapiantati per cirrosi alcolica sono soprattutto legate a tumori o a cause cardiovascolari (1,2). Tra coloro che riprendono l’abitudine di bere in modo importante (in realtà pochi, 4-5%) (3,6) la percentuale di morte per epatopatia da alcol è dell’87% (1).

Una epatite alcolica acuta è una sindrome clinica a sé stante in pazienti con uso di alcol attivo e cronico; è una sindrome ad alta mortalità (40-50%) (3). L’indicazione al trapianto in pazienti con epatite alcolica acuta è oggetti di forti discussioni e per questo motivo sono diversi i punteggi prognostici che tentano di individuare la gravità di ogni singolo paziente (Il Discriminant Factor di Maddrey (7), il Glasgow Alcoholic Hepatitis Score –GAHS-, il modello Lille, il punteggio ABIC). Si tratta di pazienti che sino a poco tempo fa non venivano considerati per questa opzione per vari motivi. Il dato crudo è che questi pazienti se non rispondono ad una terapia medica, presentano una mortalità a 6 mesi di oltre il 70% (1). La terapia medica con corticosteroidi e/o pentossifillina permette un vantaggio del 50% in termini di sopravvivenza (3).
Si tratta di pazienti che raramente giungono all’esame per una proposta di trapianto di fegato, a causa della regola dei 6 mesi di astinenza (3). Per definizione si tratta infatti di pazienti che bevevano fino a 3 settimane prima dell’insorgenza della epatite acuta. Rappresentano un problema etico. In realtà pazienti con epatite acuta alcolica e trapiantati hanno evidenziato una sopravvivenza molto elevata a 2 anni rispetto a quelli non trapiantati (73% vs 23%) (4).
La sopravvivenza dopo trapianto di fegato di questi pazienti è simile ai pazienti operati per altre patologie acute. In conclusione un trapianto potrebbe essere proposto a questa categoria di pazienti se l’episodio di epatite alcolica acuta sia il primo, se non si ottenga risposta ad una terapia medica e se ci sia un ottimo supporto psicosociale (3). Alcuni Autori (6) propongono che tali pazienti, se non responsivi ad una terapia medica, essendo ad elevatissimo rischio di morte nel giro di 6 mesi, e considerati buoni risultati dopo trapianto, debbano essere proposti immediatamente ad un trapianto, senza attendere una astinenza dall’alcol.

In conclusione sembra che i pazienti affetti da alcolismo debbano essere considerati dei pazienti malati che sviluppano le complicanze della loro malattia di base. Essendo i risultati del trapianto buoni, anche a distanza, per i pazienti con cirrosi epatica alcolica in progressione e per coloro che siano affetti da una epatite alcolica acuta, la prescrizione di 6 mesi di astinenza dall’alcol, in alcuni casi può essere fatale e precludere una possibilità terapeutica efficace. L’identificazione di fattori predittivi di recidiva più evidenti, sembra molto importante (supporto familiare, comorbidità psichiatriche, anamnesi di uso di droghe, adesione alle prescrizioni mediche ed agli appuntamenti, storie familiari di alcolismo etc).

1) GA Berlakovich: World J Gastroenterol 2014 July 7, 20 (25):8033-39
2) MM Jaurigue: World J Gastroenterol 2014 March 7; 20(9): 2143-2158
3) AK Singal: World J Gastroenterol 2013 September 28; 19(36): 5953-5963
4) P Mathurin: N Engl J Med 2011;365:1790-1800
5) R Kahn: World J Gastroenterol 2014 September 14; 20(34): 11935-11938
6) G Testino: World J Gastroenterol 2014 October 28; 20(40): 14642-14651
7) HH Tan: Mount Sinai J of Medicine 76:484–498, 2009

Il cancro della colecisti (dicembre 2014). Gallbladder cancer

E’ il tumore più frequente e più aggressivo tra quelli che interessano le vie biliari (5) (tra i quali si considerano oltre ai tumori della colecisti, i colangiocarcinomi intra ed extraepatici ed alcuni cancri periampollari) (NCCN, 1) ed è il sesto tumore per frequenza tra quelli gastrointestinali. E’ una malattia diffusa in India, Asia (Giappone), Est Europa e Sud America, soprattutto in Cile dove è la causa più frequente di decesso per tumore nelle donne.

Negli USA nel 2010 si contavano 12760 nuovi casi dei quali 9760 erano della colecisti e cancri extraepatici, mentre 3000 erano colangiocarcinomi intraepatici (1). L’incidenza di questi tumori è bassa rispetto agli altri, ma la loro mortalità è molto elevata. Ciò anche in quanto una diagnosi precoce è a volte difficile e spesso i pazienti sono inoperabili al momento della scoperta del tumore. Inolre tendono precocemente ad interessare le strutture circostanti, i vasi sanguigni, i linfatici ed i linfonodi (NCCN guidelines 2014).

Tra i fattori favorenti la sua comparsa si ritiene siano quadri di colecistite cronica con calcoli di volume aumentato, la cosiddetta colecisti a porcellana (anche se tale associazione sembra in netta diminuzione), anomalie della confluenza biliopancreatica, i polipi della colecisti singoli sintomatici e con diametro > 1 cm (NCCN). Le donne sono più predisposte degli uomini.

Il tumore della colecisti viene classificato in 4 stadi (AJCC) (vedi 3) a seconda della profondità di invasione nella parete della colecisti e degli organi circostanti e dei linfonodi. Lo stadio 1 è il meno grave. Lo stadio del tumore è il fattore prognostico più importante. In studi USA su 2500 pazienti con cancro della colecisti, la sopravvivenza a 5 anni è stata del 60% allo stadio 0, 39% allo stadio I, 15% allo stadio II, 5% allo stadio III e 1% allo stadio IV (NCCN).

Il cancro della colecisti può presentarsi in minore percentuale dei casi come un ispessimento della parete della colecisti; oppure nel 25% dei casi come una masserella con diametro superiore ai 2 cm nel lume della colecisti insieme a dei calcoli; oppure nella maggior parte dei casi come una massa in sede colecistica mal definibile dal fegato ed insieme a dei calcoli (1).

La terapia ideale è chirurgica: resezione chirurgica completa con assenza di tumore sui margini della resezione; comprende in genere la asportazione della colecisti con associata una resezione epatica limitata (segmenti 4B e 5) ed una linfoadenectomia (asportazione dei linfonodi dell’ilo epatico, del legamento gastroepatico e retroduodenali -NCCN).

Uno studio recente ed interessante è stato effettuato nel 2014 da Pilgrim (4). Questi affronta alcuni punti chiave del trattamento, sottolineando che bisogna modificare l’atteggiamento assolutamente negativo verso questo tipo di tumore.

L’autore per prima cosa sottolinea che un articolo del 2011 (5) effettuato su 261 pazienti affetti da ca. della colecisti, aveva stabilito che il principale fattore connesso con la sopravvivenza era una resezione senza residuo (R0). Quindi effettua uno studio, una metanalisi, inizialmente su 1490 articoli selezionandone 40. Tra gli argomenti importanti:

  • Una linfoadenectomia con asportazione di almeno 6 linfonodi è importante per lo “staging” dei pazienti, e comunque la colecistectomia unitamente alla asportazione di almeno 3 linfonodi dà un vantaggio in termini di sopravvivenza. Il numero dei linfonodi metastatici è importante per la prognosi, indipendentemente dalla loro sede (N1 o N2 – gli N1 sono quelli sino alla a. gastroduodenale). In conclusione una linfoadenectomia deve essere considerata obbligatoria.
  • Un altro fattore è T, cioè l’estensione del tumore nella parete della colecisti ed oltre. Da notare che il grado T è associato con un interessamento linfonodale che sarebbe del 12,5% nei T1, 31,3 nei T2 e 45,5% nei T3. Di nuovo quindi si sottolinea l’importanza di una linfoadenectomia. Complessivamente, a parte i tumori classificati come T1a (tumore che non raggiunge lo strato muscolare), negli altri è necessario eseguire un qualche tipo di epatectomia con una linfoadenectomia.
  • Nel caso di malattia che interessi il cistico, è necessaria una resezione della via biliare che quindi non deve essere fatta di routine ma solo in questo caso specifico.
  • L’ittero pre-operatorio deve essere considerato un cattivo fattore prognostico soprattutto se esiste una situazione di N1. Una parte di pazienti N0 con ittero può ricavare un vantaggio da una resezione R0, anche se questa può essere gravata da una maggiore mortalità. In questi casi una laparoscopia pre-operatoria può essere utile per identificare pazienti non operabili.
  • I tumori che invadono l’arteria epatica o la vena porta non possono essere considerati resecabili in modo radicale ed hanno una pessima prognosi.
  • Nel caso di colecistectomie laparoscopiche la excisione dei tramiti di ingresso degli strumenti non è più raccomandata.
  • Anche se il sesso femminile ha una maggiore incidenza di ca. della colecisti, la prognosi di tale malattia è uguale nei due sessi.
  • Valori elevati di CA 19-9, in particolare se superiori a 90 U/ml, indicano nel 95% dei casi una non resecabilità del tumore.

In conclusione Pilgrim consiglia un trattamento adeguato del tumore, in particolare in relazione alla linfoadenectomia.

Infine recentemente è stato pubblicato un articolo in cui nei casi non operabili si segnalano buoni risultati con la associazione di gemcitabina e cisplatino (6)


La colecistite acuta, oggi

Colecistectomia laparoscopica in colecistite

La colecistite acuta rimane una patologia comune, la cui codifica per quanto riguarda la tempistica terapeutica rimane dibattuta. In effetti sino ad ora si era ritenuto che l’atteggiamento più corretto fosse quello di un trattamento antibiotico iniziale e di una chirurgia dilazionata, dopo 4-6 settimane.

Tale approccio viene oggi posto in discussione. Ed anche se oggi si ritiene che un intervento precoce sia vantaggioso, non è chiaro cosa si intenda per precoce, se entro 2 giorni o entro 10 giorni dal presentarsi dei sintomi.

Approfittiamo dunque di un articolo uscito recentemente su una importante rivista medica (JAMA, 17 dic 2014) e dal titolo Optimal Time for Early Laparoscopic Cholecystectomy for Acute Cholecystitis (autore Syed Nabeel Zafar, Department of Surgery, Howard University Hospital, Washington) per approfondire qualche aspetto ed avere qualche utile suggerimento sulle colecistiti acute..

Lo studio si occupa di colecistectomie laparoscopiche precoci, cioè effettuate entro 10 giorni dalla comparsa della sintomatologia acuta colecistitica, e cerca di definire in quali giorni dalla comparsa della sintomatologia, l’intervento sia meglio effettuabile in termini di mortalità e morbidità.

Si tratta di uno studio prospettico effettuato dal 2005 al 2009 su un numero enorme (95.523) di pazienti adulti (atà > 18 anni) sottoposti ad intervento appunto entro 10 giorni dalla comparsa della sintomatologia. Gli interventi di colecistectomia laparoscopica vennero divisi in tre gruppi a seconda dei tempi di esecuzione: 61.576 tra il giorno 0 ed 1 (gruppo che chiameremo A), 30.838 tra il giorno 2 e 5 (gruppo B), 3109 tra il giorno 5 e 10 (gruppo C). I risultati vennero analizzati in termini di tempi di tempi di degenza, mortalità, complicanze e costi.

Globalmente la percentuale di mortalità fu dello 0,41% mentre di complicanze del 6,9%. Il tasso di conversione da chirurgia laparoscopica ad aperta fu stabile allo 0,1%, mentre quello di lesioni biliari anche se basso, risultò aumentare gradualmente dal gruppo A al gruppo C (rispettivamente 0,02%, quindi 0,01% e poi 0,1%).

Come risultati si osservò che i pazienti operati nei gruppi 2 e 3 ebbero risultati peggiori rispetto al primo gruppo in termini di mortalità e di infezioni postoperatorie. I costi medi ospedalieri andarono da 8274$ nel gruppo A a 17.745 nel gruppo C.

Al termine dello studio si dedusse che il periodo ideale per la chirurgia era rappresentato dalle prime 48 ore dopo la comparsa della sintomatologia colecistitica acuta. Quindi in un quadro di colecistite rimandare l’intervento determina aumento sia delle complicanze che dei costi.

Calcoli alla colecisti e gravidanza

Da un recente articolo italo-statunitense (De bari O; Cholesterol cholelithiasis in pregnant women: pathogenesis, prevention and treatment. Ann Hepatol. 2014 Nov-Dec;13(6):728-45) l’attenzione viene posta sul problema dei calcoli connessi allo stato di gravidanza.
Gli autori sottolineano che studi epidemiologici e clinici evidenziano che la prevalenza dei calcoli alla colecisti sia il doppio nelle donne che negli uomini a tutte le età ed in ogni popolazione. Le modifiche ormonali nel corso della gravidanza rendono le donne particolarmente a rischio. L’incidenza di “sabbia” biliare (situazione che precede la formazione dei calcoli) e di calcoli giungono durante la gravidanza ed il post-partum rispettivamente sino al 30 e 12%. Inoltre l’1-3% delle donne gravide vengono sottoposta a colecistectomia nel corso del primo anno dopo il parto, per problemi clinici o per complicanze varie.
Un recente studio Nigeriano effettuato su 1283 donne gravide tra i 14 ed i 43 anni di età (Ibitoye BO; Prevalence and complications of gallstone disease among pregnant women in a Nigerian hospital. Int J Gynaecol Obstet. 2014 Apr;125(1):41-3) ha evidenziato eco graficamente una incidenza di colelitiasi del 2,9%, di sabbia biliare del 2% e di polipi della colecisti, dello 0,2%. La maggior parte (56%) delle donne con calcoli della colecisti erano molto giovani, con età inferiore ai 30 anni; tra le donne senza calcoli all’inizio della gravidanza solo una (1,2%) evidenziò la comparsa di calcoli nel terzo trimestre. Infine solo 3 cioè lo 0,2% delle donne ebbero un quadro di colecistite e 2 vennero sottoposte ad intervento in laparoscopia, ma dopo il parto.
L’aumento dei livelli di estrogeni durante la gravidanza determinano importanti modifiche metaboliche a carico del sistema epatobiliare ed in particolare si può avere la formazione di una bile supersatura di colesterolo ed una scarsa motilità della colecisti, due fattori favorenti la formazione di calcoli.
Un’altra ipotesi postulata da alcuni autosi statunitensi (Wong AC; Carbohydrate intake as a risk factor for biliary sludge and stones during pregnancy. J Clin Gastroenterol. 2013 Sep;47(8):700-59) si è basata su esami ecografici di 3070 donne in gravidanza e dopo 4-6 settimane dopo il parto. L’incidenza di colelitiasi fu del 10,6% a 4-6 settimane dopo il parto. Venne evidenziata una relazione piuttosto stretta tra colelitiasi durante la gravidanza ed una dieta ricca di fruttosio, per cui la conclusione degli autori consigliava un trattamento dietetico durante la gravidanza. (si ricorda che il fruttosio è contenuto soprattutto in: miele, datteri, uva secca, fichi secchi, datteri secchi, prugne, uva, cocacola senza caffeina ed altri quali banane, melanzane, peperoni – mia nota).
L’approccio terapeutico è sostanzialmente conservativo durante la gravidanza onde evitare problemi biliari. Nella maggior parte delle donne gravide la sabbia biliare ed i calcoli tendono a scomparire spontaneamente dopo il parto. In alcune situazioni comunque questi persistono e necessitano un intervento. Operazioni quali una colecistectomia laparoscopica sono in genere ben tollerate da effettuarsi preferibilmente nel secondo trimestre di gravidanza o appunto, dopo il parto. Comunque, nonostante tale intervento sia scevro da rischi, si potrebbe considerare l’impiego di farmaci quali l’acido ursodesossicolico ed i prodotti più moderni quali l’ezetimibe, in grado di abbassare i lipidi.

L’epatite C ed il suo trattamento

L’epatite C ed il suo trattamento

L’infezione da virus dell’epatite C colpisce attualmente circa 160 milioni di persone nel mondo. Il 10-40% di queste svilupperà una cirrosi epatica con le sue complicanze. In particolare una infezione da HCV a lungo andare può condurre anche a danni renali cronici (Antimicrobial Agents and Chemotherapy 2013; 57 (12): p. 6097–6105). Si calcola che negli USA, nel 2020, vi saranno 109000 pazienti in dialisi affetti da infezione da virus dell’epatite C.
Allo scopo di proteggere tutti questi pazienti è necessario “eradicare” in modo permanente questo virus. L’eradicazione del Virus dell’epatite C è definita come la SVR, cioè una risposta virologica costante, consistente nella mancata identificazione dell’HCVRNA del virus nel siero per 4-24 settimane dopo la fine della terapia.
I primi tentativi di trattamento vennero fatti con un farmaco chiamato Interferone, in monoterapia. Le percentuali di efficacia del trattamento sono molto migliorate cambiando la struttura della molecola (cosidetta pegilazione) di interferone ed aggiungendo Ribavirina, e più recentemente altri farmaci come il telaprevir ed il boceprevir.
L’efficacia del trattamento dipende dai genotipo del virus.Ad oggi sono stati identificati 6 genotipi (1-6) del virus dell’epatite C, e diversi sottotipi (a,b,etc). Con una terapia a base di due farmaci, perginterferone alfa e ribavirina, la risposta varia a seconda del genotipo essendo del 40-50% per i pazienti affetti da virus di genotipo 1 e 4, e del 70-80% per i genotipi 2 e 3. Quando poi il boceprevir ed il telaprevir vengono aggiunti ad un trattamento con perginterferone alfa e ribavirina nei pazienti affetti da infezione da virus HCV di genotipo 1, la risposta aumente del 25-31%.

Nel dicembre 2013 la FDA statunitense approvò altri due farmaci: il simeprevir (in associazione con perginterferon e ribavirina) per le infezioni da genotipo 1; il sofosbuvir per i genotipi 1 e 4 (in associazione con perginterferon e ribavirina) e per i genotipi 2 e 3 (con la ribavirina).
Questi due farmaci hanno aumentato la risposta SVR sino all’80-90%. Inoltre si tratta di farmaci che vengono in genere ben tollerati, i loro schemi di trattamento sono più semplici e presentano meno interazioni con altri farmaci. Le linee guida per l’impiego di tali prodotti sono state elaborate dall’European Association for the Study of the Liver (EASL) e dall’American Association for the Study of the Liver Diseases (AASLD). Tali linee guida sono state modificate dopo l’introduzione del telaprevir e del boceprevir, soprattutto per i genotipi 1. Vista comunque la rapidità di evoluzione dello scenario farmacologico, a volte è difficile seguire tutti gli aggiornamenti (Clin Pharmacokinet (2014) 53:409–427).

Fistole pancreatiche post-resezione

Le fistole pancreatiche hanno una incidenza che in letteratura è variabile a seconda delle definizioni.
In realtà la stessa definizione di deiscenza (leak) o Fistola pancreatica non è saldamente acquisita anche se l’international Study Group on Pancreatic Fistula (ISGPF) ha cercato di fornirne una: la definizione più comune è “una fuoriuscita attraverso un drenaggio posto in sede di intervento o successivamente, di una qualsivoglia quantità di liquido dalla 3° giornata postoperatoria inclusa, con un contenuto di amilasi uguale o superiore a 3 volte il limite superiore dei valori normali serici” (Bassi 2008). Da tener presente che la deiscenza rappresenta la forma acuta mentre la fistola rappresenta una deiscenza ormai cronicizzata e controllata (Mahvi 2009).
L’incidenza di fistole pancreatiche è elevata sia nelle pancreasectomie distali (Molinari 2007: 33%) che nelle cefalo duodeno (Molinari 2007:14%) e particolarmente specifica per i pancreas “soffici” e, secondo alcuni nei wirsung con diametro ≤ 3 mm (Basi 2008). La persistenza invece dei drenaggi addominali oltre POD 8 è correlata con un’alta incidenza di complicanze addominali, in quanto si ritiene che da POD 7 i drenaggi possano essere fonte di infezione (Molinari).
Le fistole pancreatiche sono ulteriormente suddivise in ad alta o bassa portata a seconda che la quantità nei drenaggi sia > o < a 200 cc (Bassi 2008). Dalla Letteratura si evince che la correlazione tra il valore delle amilasi nei drenaggi e la insorgenza di una fistola pancreatica, non è ancora chiaro (Molinari 2007). Ad ogni modo la presenza di una amilasemia > 5000 UI nel drenaggio parapancreatico in POD 1 è altamente predittivo di fistola pancreatica (Molinari 2007), per cui tali pazienti potrebbero beneficiare di un digiuno più prolungato e di maggiore attenzione mentre i pazienti con amilasi nei drenaggi < 5000 UI in POD 1 potrebbero essere trattati con una rimozione precoce (POD 7-8) dei drenaggi stessi.
Clinicamente si distinguono tre gradi di fistola pancreatica post operatoria (POPF): la forma “A” non ha caratteri clinici evidenti, con un paziente che sta bene e con una TAC negativa per raccolte. Il tipo “B” è caratterizzato da pazienti con febbre, leucocitosi e dolore e con immagini liquide alla TAC che richiedono un ri-posizionamento dei drenaggi addominali; il trattamento è a base di AB e di somatostatina; la degenza è prolungata ed i paziente può essere dimesso con i drenaggi ancora in sede. Il Tipo “C” è caratterizzato da un quadro clinico più grave, con raccolta endoaddominale, tendenza alla sepsi, alla necessità di TPN ed eventualmente di rianimazione; Da notare che nei tipi “B” e “C” è auspicabile una fistolografia per evidenziare se l’ansa viene visualizzata immediatamente il che potrebbe significare che il drenaggio deve essere modicamente ritirato (Bassi 2008).
La diagnosi oltre che clinica si basa sulla TAC che evidenzia raccolte addominali con anche minimi contenuti aerei (Bassi 2008).
Nelle forme A e B (85%) dei casi è sufficiente un trattamento conservativo con liquidi, AB, digiuno e somatostatina/Octreotide (anche se discussi in quanto la riduzione volumetrica della fistola non influenza la fistola stessa – Mahvi 2009). Nel tipo 3 esistono diverse opzioni che includono comunque un re intervento con drenaggio multiplo, o conversione anastomotica, pancreasectomia o chiusura della anastomosi. Un re intervento è comunque raramente indicato in pazienti ormai fragili che è meglio trattare in modo conservativo. Nelle fistole croniche il ritiro del drenaggio è sufficiente per determinare un aumentata resistenza al liquido e quindi chiudere la fistola (Mahvi 2009).

Colecistectomia laparoscopica per calcoli nei pazienti cirrotici

I pazienti cirrotici presentano una incidenza di calcoli alla colecisti che è doppia (sino al 30%) rispetto ai pazienti non cirrotici (13%)(de Goede). L’intervento chirurgico è più complesso ed in genere in Letteratura si preferisce intervenire nei pazienti cirrotici con una colecistectomia aperta classica piuttosto che in laparoscopia.

In un articolo pubblicato nel 2012 (Norman Oneil Machado: Laparoscopic Cholecystectomy in Cirrhotics. JSLS (2012)16:392–400) si vogliono analizzare i risultati della colecistectomia per calcoli, nei pazienti cirrotici. jsls
Effettuando una revisione della Letteratura medica l’autore individua 1310 casi di pazienti cirrotici sottoposti a colecistectomia laparoscopica dal 1994 al 2011. La maggior parte (78% ) presentava una cirrosi di lieve gravità ossia in Child A, 19% di media gravità ossia Child B e l’1,6% di cirrosi grave ossia Child C.
In questi pazienti il tasso di “conversione” durante l’intervento da laparoscopia a colecistectomia aperta fu del 4,5%, la morbidità del 17% e la mortalità dello 0,45%.

Uno studio ancora più interessante è stato pubblicato nel 2013 su una prestigiosa rivista (B.de Goede et al: Meta-analysis of laparoscopic versus open cholecystectomy for patients with liver cirrhosis and symptomatic cholecystolithiasis. British Journal of Surgery 2013; 100: 209–216) per individuare quale sia la tecnica chirurgica migliore per calcoli alla colecisti nei cirrotici. BJS 100
Venne condotta una cosiddetta metanalisi su articoli dal 1990 al 2011 basandosi quindi su 4 studi randomizzati in 234 pazienti affetti da calcoli alla colecisti e cirrosi ed operati in laparoscopia o in tecnica classica, aperta. Gli interventi furono eseguiti in elezione, cioè non in condizioni di urgenza. La cirrosi era lieve/media (Child A e B) nel 97% di essi.
Risultati: Non ci furono decessi. Non ci furono differenze in consumo di sangue e durata dell’intervento chirurgico. La tecnica laparoscopica evidenziò meno complicanze postoperatorie, minori tempi di degenza ed una più rapida ripresa di una alimentazione normale.
Si può dunque concludere che nei pazienti con cirrosi Child A e B, in elezione, la colecistectomia laparoscopica è preferibile rispetto alla tecnica aperta.

La prognosi delle metastasi epatiche da tumore del colon

Quali sono i fattori prognostici per pazienti operati di metastasi da cancro del colon retto (CRLM).

Molto è cambiato negli ultimi anni. Fino a 20 anni fa scoprire una metastasi epatica da npl colon voleva dire chiudere la storia del malato, almeno dal punto di vista chirurgico. In seguito si è cercato di individuare alcuni fattori prognostici.

Si è parlato del T del tumore colico, che però raramente è risultato predittivo di sopravvivenza dopo resezione epatica. La positività dei linfonodi paracolici invece ha una relazione con la recidiva e la sopravvivenza dopo resezione epatica. Il numero delle metastasi ha ancora oggi valore variabile a seconda delle statistiche. Le dimensioni delle metastasi anche se in alcuni casi è risultato legato alla sopravvivenza post resezione, spesso non ha presentato importanza. La presenza di malattia extraepatica è importante: in questo campo dal 2005 con una pubblicazione di Elias le cose sono molto cambiate e comunque si è stimolato un interesse verso la presenza di meta extraepatiche contemporanee a quelle epatiche. In pratica nel 2005 Elias sottolineava che era importante il numero totale delle metastasi epatiche ed extraepatiche, venendo a scemare l’importanza di quelle extraepatiche. In realtà andando a studiare le sopravvivenze dei pazienti resecati epatici in presenza di meta extraepatiche, le migliori sopravvivenze si sono avuti con metastasi contemporanee polmonari, mentre le peggiori con gli interessamenti linfonodali e peritoneali. Studi interessanti hanno inoltre dimostrato che la sopravvivenza è ancora buona con interessamento LN della zona 1, cioè dell’ilo epatico e retropancreatico e non con interessamento dei LN della arteria epatica comune e oltre. Il margine infiltrato microscopicamente ha stimolato anch’esso molti studi: l’importanza di R1 in sé è andato scemando, nel senso che anche il margine di 1 mm permette una sopravvivenza simile a quello di 10 mm; l’R1 è probabilmente comunque espressione di maggiore aggressività neoplastica.

Insomma tutti i diversi punteggi prognostici sin da quello più considerato, quello di Fong del 1999, si sono rivelati fallaci, soprattutto oggi con l’avvento di nuovi farmaci in chemioterapia.

Tra i fattori prognostici odierni sono la risposta clinico/radiologica (RECIST) alla chemioterapia; la risposta istologica alla chemioterapia; la sottigliezza del margine tumore/tessuto sano; la relazione di questi ultimi due fattori con i nuovi criteri radiologici morfologici di Chun insieme al RECIST; il rapporto neutrofili/linfociti (> a 5 è segno di scarsa reattività del sistema immunitari al tumore); la identificazione di markers biologici (VEGF, EGFR, KRAS); la identificazione di cellule tumorali circolanti con tecniche di immunoistochimica.

Infine l’aspetto più importante è la necessità di decidere i trattamenti da effettuare in tali malati con staff multidisciplinari Oncologi-chirurghi-radiologi.

colecistectomia laparoscopica

Lygia Stewart: Iatrogenic Biliary Injuries Identification, Classification, and Management. Surg Clin N Am 94 (2014) 297–310

Le lesioni biliari iatrogene surg clin N am

L’articolo segnala che negli Stati Uniti vengono effettuati ogni anno 750.000 colecistectomie laparoscopiche. Tale tipo di intervento offre numerosi vantaggi rispetto a d una colecistectomia classica con ampia incisione addominale (laparotomica) che consistono in un minore dolore, minori infezioni di ferita, migliore effetto estetico, minore attivazione dei fattori infiammatori, ed un più rapido ritorno alla attività lavorativa. A causa di tali vantaggi, la colecistectomia laparoscopica ha in gran parte sostituito quella laparotomia nel trattamento dei calcoli della colecisti. Il solo possibile svantaggio della colecistectomia laparoscopica è una più elevata incidenza di lesioni biliari maggiori. Studi effettuati su un gran numero di pazienti segnala una incidenza di tali lesioni corrispondente allo 0,3-0,5%, mentre quella delle colecistectomie laparotomiche è dello 0,1-0,2%. Bisogna segnalare che comunque alcuni autori segnalano anche per le colecistectomie laparoscopiche una incidenza di tali lesioni biliari maggiori, dello 0,2%. Peraltro, l’incidenza di tali lesioni nelle colecistectomie laparoscopiche cosiddette “single-port”, cioè con unica piccola incisione di ingresso, è ancora più alta, corrispondente allo 0,72%.

surg clin N amEsistono diversi tipi di lesioni biliari, classificate attualmente in modo leggermente diverso secondo le classificazioni di Bismuth o di Strasberg o di Stewart-Way.

Se la lesione non viene identificata e trattata immediatamente, durante la colecistectomia, i sintomi ed il quadro lesivo può manifestarsi più in là nel tempo, nel periodo postoperatorio.

In quei giorni diventa importante capire esattamente di quale danno si tratti, in genere con una colangiografia retrograda.

Un dato interessante è che la riparazione biliare eseguita dal chirurgo o dalla struttura che ha determinato la lesione, ha una percentuale di successo del 17-30%. In realtà tali lesioni andrebbero trattate da chirurghi esperti in chirurgia epatobiliare: in questi casi la percentuale di successo sale a oltre il 90%.