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MMF e leucopenia

Un aspetto che a volte si riscontra nella fase post-trapianto è una leucopenia/neutropenia.

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Anche se tale neutropenia può essere dovuta a molteplici fattori quali infezioni sistemiche da virus o altri patogeni, disordini maligni linfoproliferativi etc, la causa più frequente è dovuta all’uso di farmaci.
Dopo trapianto, in questo caso di rene, una neutropenia può essere dovuta a vari immunosoppressori (micofenolato, azatioprina, antitimoglobuline, rituximab), antibiotici o farmaci antivirali (thrimethoprin, ganciclovir, valganciclovir) o altri farmaci (inibitori di pompa protonica, inibitore dell’enzima di conversione dell’angiotensina).
Il MMF è uno dei farmaci che più frequentemente può indurre neutropenia; in Letteratura, per quanto riportato da Matsui, vengono riportati 6 studi che confermano questa associazione: studiando i tempi di insorgenza, ritenendo comunque che in origine il valore dei globuli bianchi fosse normale, pare che ci vogliano 80-160 giorni dall’inizio del trattamento con MMF per avere una neutropenia; a volte tale latenza potrebbe essere più breve (in media 79 giorni, 16-365) causa il concomitante uso di steroidi, che interferirebbero aumentando il micofenolato “libero” tossico, cioè non legato alle albumine; dosi basse di albumine inoltre possono aumentare la parte “libera” di MMF, risultando in una maggiore esposizione e tossicità.

Matsui K, Clin Exp Nephrol (2010) 14:637–640

Meno ritrapianti, e migliorie nei ritrapianti per pazienti HCV

Negli ultimi anni la terapia dell’Epatopatia HCV positiva è migliorata. Sino a pochi anni fa il 70% dei pazienti trapiantati per epatopatia HCV positiva presentava già entro il primo anno una epatite cronica C (Song). Nei pazienti trapiantati inoltre tale recidiva procede con una velocità maggiore che nei pazienti immunocompetenti evolvendo in una fibrosi dopo 9-12 anni ed in una cirrosi dopo 20-30 anni. Il 15-20% dopo 10 anni evolveva in uno scompenso epatico o in un tumore epatico (Bunchorntavakul).
Il ritrapianto in questi pazienti rappresenta una opzione complessa che, sino a pochi anni fa, aveva risultati in genere peggiori del primo trapianto.

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Le strategie di trattamento dei pazienti affetti da viremia HCV candidati al trapianto sino a poco tempo fa erano le seguenti: 1) trattamento dei pazienti con cirrosi in attesa di trapianto 2) profilassi antivirale con inizio del trattamento al momento del trapianto e proseguita 3) trattamento iniziato nei primi 6 mesi dopo il trapianto 4) terapia antivirale quando la patologia fosse ormai già presente (Bunchorntavakul).

Uno studio nel 2016 (song) evidenziava che tra i fattori predittivi di buoni risultati dopo ritrapianto per recidiva di una epatopatia HCV, vi erano una assenza di viremia del virus C prima del ritrapianto, una terapia antivirale specifica dopo il ritrapianto, un genotipo virale diverso dall’1, un punteggio MELD < 25 e l’età del donatore del ritrapianto < 60 anni.
I primi due fattori sono quelli che sono evoluti nel tempo in quanto le modalità per ottenere quei risultati sono cambiati; mentre sino a qualche anno fa si utilizzavano farmaci quali l’Interferone e la Ribavirina con una percentuale di eradicazione del virus C del 30% (Bunchorntavakul) ed il cui uso era associato a volte a gravi effetti collaterali, recentemente l’introduzione dei Direct-acting antiviral agents (DAA) ha migliorato radicalmente i risultati. Si tratta di boceprevir e telaprevir e, recentemente, di sofosbuvir e simeprevir attivi soprattutto verso il virus C genotipo 1.

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Con tali farmaci antivirali, la percentuale di ritrapianti per recidiva di epatopatia HCV nel primo anno post-trapianto negli USA è diminuita dal 20% nel 2005 all’1,2% nel 2014 (cholankeril).
Gli ultimi dati indicano che la percentuale di pazienti HCVRNA positivi, cioè con virus attivi, che eliminano il virus con le recenti terapie antivirali, è nettamente aumentata, rappresentando nei pazienti sottoposti a ritrapianto o da ritrapiantare un fattore prognostico positivo.

Song ATW, World J Gastroenterol 2016 May 14; 22(18): 4547-4558
Bunchorntavakul, Journal of Clinical and Translational Hepatology, 2014 vol. 2 | 124–133
Cholankeril G, J Viral Hepat. 2017;24:1194–1195
Croome 2018 AJT proof

Fumo e trapianto di fegato

 


Il fumo di tabacco, di cui fanno uso 1 su 5 persone con età superiore ai 15 anni nella popolazione generale, è uno dei principali fattori di rischio per diverse malattie croniche, per cancro, malattie polmonari, cardiovascolari ed ulcere peptiche. Il fumo rappresenta anche un fattore di rischio per infezioni batteriche e virali. Favorisce inoltre lo sviluppo di malattie renali croniche (Corbett). Nel mondo è responsabile della morte di circa 6 milioni di persone all’anno.
Nei pazienti trapiantati il fumo può essere ancora più pericoloso: infatti, a causa dell’immunosoppressione, i pazienti trapiantati sono già maggiormente soggetti a infezioni, cancro, e malattie cardiovascolari, che possono essere accentuate appunto dal fumo. Così l’Associazione Americana per lo studio delle malattie epatiche e la Società Americana dei Trapianti hanno esposto nel 2012 delle linee guida che raccomandano caldamente ai pazienti da sottoporsi a trapianto di fegato o di rene, di astenersi dal fumo. Nonostante ciò alcuni studi segnalano che tra l’11 ed il 40% dei pazienti sottoposti a trapianto riprendono a fumare.
Il problema è variamente sentito dai medici trapiantatori: in un sondaggio nei vari Ospedali Statunitensi al quale risposero nel 2015 il 46% dei Centri, il 75% di essi riferiva di avere un protocollo per i fumatori e che l’84% di questi protocolli prevedeva la cessazione del fumo (Fleetwood).
Nel 2008 Heide studiò 401 pazienti per almeno 2 anni dopo il trapianto di fegato:il 53% non avevano mai fumato, il 30% circa avevano fumato in passato mentre circa il 17% erano i fumatori attivi; dopo il trapianto circa il 2% dei non-fumatori presero a fumare; il 12% dei fumatori pregressi ripresero a fumare dopo il trapianto; tra i fumatori attivi al trapianto circa il 30% smisero prima del trapianto e tale percentuale rimase tale anche dopo il trapianto. I fumatori attivi al momento del trapianto erano soprattutto quelli trapiantati per cirrosi alcolica. Il fumo non influì sulla sopravvivenza dei fegati e dei pazienti; però nuovi tumori comparvero con frequenza maggiore nei fumatori rispetto ai non fumatori; dopo 15 anni dal trapianto il rischio di sviluppare un tumore fu del 18,2% nei fumatori e del 7,7% nei non fumatori.
Uno altro studio (Leithead) del 2008 veniva focalizzato sui pazienti trapiantati di fegato; ne vennero considerati 136; da questo studio venne dimostrato che i fumatori attivi, sottoposti a trapianto di fegato, presentavano una aumentata mortalità rispetto ai non fumatori: con una sopravvivenza a 1, 5 e 10 anni rispettivamente del 94-68-54% rispetto a 94-83-77%. Tale mortalità era in particolare dovuta a patologie cardiovascolari ed infettive, e non a tumori.
Altri hanno dimostrato (Corbett) che il fumo nel sistema immunitario di un trapiantato, determina una maggiore proliferazione dei linfociti T, favorendo quindi episodi di rigetto. Lo stesso Autore riferisce, nei riceventi fumatori, una maggiore incidenza di tumori rispetto ai non fumatori (12,7% verso il 2,1%). Nei pazienti trapiantati di fegato il fumo aumenterebbe il rischio di trombosi arteriosa, complicanze biliari e tumori (Corbett 2012) con una incidenza del 13% rispetto a 2%. 
Mangus nel 2015, tramite uno studio su 1275 pazienti adulti, studiò anche pazienti trapiantati di fegato tra il 2001 ed il 2011: i pazienti che fumavano o avevano appena smesso di fumare al momento della messa in lista per trapianto, rispetto ai non fumatori, presentavano una maggiore frequenza di comparsa di nuovi tumori, in particolare di tumori non cutanei quali quelli del capo e del collo, del polmone, di linfomi e di tumori dell’apparato genito-urinario.
I pazienti fumatori inoltre dimostravano una sopravvivenza a 10 anni statisticamente significativamente peggiore rispetto ai non fumatori (70% vs 57%).
Una pubblicazione del 2016 di Duerinckx tramite metanalisi effettuata su 73 studi ha rilevato, nei fumatori rispetto ai non fumatori dopo trapianto (di organo solido), l’esistenza di maggiori probabilità statisticamente significative di malattie cardiovascolari (OR: 1,41), di tumori non cutanei (OR: 2,58), e di aumentata mortalità (OR: 1,74). I pazienti che più frequentemente erano dediti al fumo dopo il trapianto erano, uomini, giovani e con basso Body mass Index (BMI) cioè di peso minore.

Leithead JA, 2008, Liver Transplantation, 14:1159-64
Heide 2009, Liver Transplantation, 15:648-55
Corbett 2012, Transplantation, 94 (10):979-87
Fleetwood 2015, J Gastrointest Surg, 19;2223-7
Mangus 2015, Transplantation, 99:1862-8
Duerinckx 2016, Transplantation, 100:2252-63

Ascite refrattaria dopo trapianto di fegato

Ascite refrattaria post trapianto di fegato

La cosiddetta ascite refrattaria dopo il trapianto è un problema non comune e per questo poco studiato in Letteratura.

La definizione di ascite refrattaria in genere comprende un ascite di durata superiore alle 4 settimane dopo il trapianto (Gotthardt).

La sua incidenza sembra essere negli adulti tra il 4-7% (Quintini, Gotthardt).

La causa di tale quadro è molteplice: si va dall’ostacolato afflusso o efflusso dal fegato (Gotthardt), al rigetto acuto e cronico, le epatiti ricorrenti (Aboulijoud), la disparità di dimensioni tra fegato del donatore e quello del ricevente (gotthardt), lo scompenso cardiaco sino alle infezioni peritoneali (la causa più frequente secondo Gotthardt), insufficienze renali, alterazioni idroelettrolitiche. (Quintini).

Ne sono maggiormente colpiti pazienti che prima del trapianto presentavano ascite (Gotthardt).

I pazienti affetti da tale patologia hanno una minore sopravvivenza ad 1 anno dal trapianto (75% vs 92%)(Gotthardt, Ghinolfi)).

L’eziopatogenesi sarebbe legata spesso ad un iperafflusso portale (Quintini) o/e alla ipertensione portale. Alcuni ritengono che la causa sia più spesso legata all’iperafflusso portale più che ad una maggiore resistenza al flusso portale (riportato da Chen). Tale iperafflusso determinerebbe inoltre, per effetto “buffer”, una vasocostrizione dell’arteria epatica (Presser).

Le opzioni terapeutiche sono diverse: diuretici, antibiotici, antimicotici, antivirali (Gotthardt), paracentesi, TIPS, uso di stent a palloncino nel caso soprattutto di stenosi anastomotiche nei trapianti effettuati con tecnica di piggy-back (Gotthardt), sino al ritrapianto.

La TIPS in pazienti trapiantati è stata dapprima adottata sin dal 1998-1999 (rif da Ghinolfi) in pazienti con ascite da recidiva dell’epatite da virus C. Quindi la sua efficacia è stata transitoria, in genere come ponte ad un ritrapianto. La TIPS in realtà non pare altrettanto efficace come nei pazienti non sottoposti al trapianto (Chen) anche se alcuni autori hanno ottenuto ottimi risultati (Ghinolfi) con risoluzione della sintomatologia ascitica nell’84% dei casi (16 pazienti su 19). E’ stata utilizzata per vari quadri clinici oltre all’ascite includendo sanguinamenti da varici o ostacoli all’efflusso dal fegato (Aboulijoud). Una interessante review è stata effettuata da Chen nel 2015 sull’utilità della TIPS post trapianto in 168 casi di ascite refrattaria: un successo clinico si ebbe nel 57% dei casi. Una encefalopatia si sviluppò nel 33% (Chen) e nel 31% (Ghinolfi) dei pazienti  La procedura venne effettuata in media dopo 1 anno e 6 mesi dal trapianto.

Negli ultimi anni è stata proposta e si esegue anche la embolizzazione prossimale dell’arteria splenica (Quintini), allo scopo di ottenere una diminuzione del flusso portale. Tale embolizzazione viene di solito eseguita dopo qualche mese dal trapianto (Quintini: 70 gg in media). Quintini riporta i risultati di 6 casi, dei quali 5 ebbero una completa risoluzione dell’ascite. Per questo motivo gli autori propongono la embolizzazione della arteria splenica come trattamento di prima linea nell’ascite refrattaria post-trapianto.  La procedura inoltre non è gravata da complicanze quali infarti o ascessi splenici (Presser).

Quintini C: Liver Transplantation, 2011, 17:668-673
Gotthardt DN; Ann Transplant, 2013: 18: 378-383
Chen B; Hepatol Int (2015) 9:391–398
Presser N; Liver Transplantation, 2015; 21:435–441
Ghinolfi D; Clin Transplant 2012: 26: 699–705
Aboulijoud M; Transplant. Proc., 37, 1248–1250 (2005)

 

Trapianti di Fegato per pazienti con problemi di alcolismo

L’alcolismo è un aspetto problematico dell’assunzione di alcol che conduce a danni clinici o a problemi psicologici (2). E’ responsabile nel mondo di circa 2,5 milioni di decessi all’anno, rappresentando il 4% delle cause di mortalità. All’alcolismo sono associate circa 60 malattie ma le cause di morte maggiore sono dovute alla epatopatia alcolica (ALD: Alcoholic Liver Disease). Quest’ultima comprende la steatosi alcolica (presente nel 90% degli alcolisti), l’epatite (25%) e quindi la cirrosi alcolica (15%) (2).
Abbiamo posto il titolo di cui sopra in quanto parliamo di due tipi di pazienti con problemi di alcool: coloro che sono affetti da una cirrosi alcolica ed i pazienti con epatite alcolica acuta.

La cirrosi alcolica è la seconda patologia in termini di frequenza, sottoposta a trapianto di fegato nel mondo occidentale. Inoltre l’8-10% dei trapianti negli USA è effettuata in pazienti con cirrosi alcolica e da virus dell’epatite C (5). In realtà la cirrosi alcolica è la conseguenza della malattia di base che è l’alcolismo. Ciò che confonde nella valutazione di questi soggetti è l’interpretazione dell’alcolismo intesa da alcuni non una malattia, ma una colpa.
La quantità di alcol sufficiente per provocare un danni epatico differisce da persona a persona ed è spesso legata a fattori genetici. E’ sufficiente una minore quantità nelle donne che negli uomini, i quanto si parla di 30gr/die di alcool nelle donne e di 50 gr/die negli uomini, per la durata di 5 anni come causa di sviluppo di una cirrosi (3). Alcuni fattori possono favorire lo sviluppo di una cirrosi: i superalcolici rispetto al vino; il “binge drinking” cioè l’assunzione di 5 o più drinks in una volta sola; bere a stomaco vuoto; l’obesità; una concomitante epatite C; fattori genetici (3,6). I pazienti con cirrosi alcolica che continuano a bere hanno una aspettativa di vita a 5 anni del 70% che però può giungere al 90% se smettono di bere (6). Per coloro che presentano già una cirrosi scompensata l’aspettativa a 5 anni è del 50% se smettono di bere, ma del 30% se continuano (6).
A causa della carenza di donatori di fegato, anche su questi pazienti cirrotici da alcol viene effettuata una selezione, ma i criteri con cui questa viene effettuata non sono uniformi tra i vari Centri di Trapianto.
Un metodo di valutazione psicosociale è il Psychosocial Assessment of Candidacy for Transplantation (PACT)(3)
Nella valutazione pre trapianto dei pazienti con cirrosi alcolica, viene richiesto di solito (85% dei centri trapianto – 6), un periodo di astinenza di 6 mesi ma questo non appare in relazione al rischio di recidiva dopo il trapianto. Ciò venne suggerito in una riunione di esperti USA nel 1997. In realtà solo dopo 5 anni di astinenza gli studi dimostrano che lo stato di sobrietà diventa serio. Tra 11 studi effettuati per individuare i fattori predittivi di recidiva solo 2 individuavano l’astinenza pre-trapianto per almeno 6 mesi (3). Gli studi dimostrano una incidenza di recidiva di assunzione di alcolici dopo il trapianto che si situa tra il 10% ed il 50% (12-46% -(2)-) con una media che si situa intorno al 30% (1) in pazienti non selezionati o non seguiti, con possibilità di discesa di tale incidenza al 13% se i pazienti vengono seguiti in modo accurato (1). In realtà l’incidenza di recidiva dopo trapianto per cirrosi alcolica è molto variabile negli studi e ciò dipende probabilmente da diversi fattori (5): la definizione stessa di recidiva; i metodi per stabilire una recidiva; il tempo di follow-up; il tipo di popolazione studiata.
E’ necessario identificare altri fattori maggiormente predittivi di recidiva (6). Alcuni Autori suggeriscono di mantenere l’impostazione dei 6 mesi di astinenza dall’alcol per le cirrosi alcoliche con MELD < 19, mentre per le altre (MELD > 19), tale periodo potrebbe essere ridotto a 3 mesi (6).
La sopravvivenza dopo trapianto dei pazienti con cirrosi alcolica non è differente da quella di pazienti trapiantati per altre indicazioni, ed è migliore di quella dei pazienti trapiantati per cirrosi da virus dell’epatite C (1) o per cirrosi alcolica e da virus C concomitanti. Le cause di morte nei pazienti trapiantati per cirrosi alcolica sono soprattutto legate a tumori o a cause cardiovascolari (1,2). Tra coloro che riprendono l’abitudine di bere in modo importante (in realtà pochi, 4-5%) (3,6) la percentuale di morte per epatopatia da alcol è dell’87% (1).

Una epatite alcolica acuta è una sindrome clinica a sé stante in pazienti con uso di alcol attivo e cronico; è una sindrome ad alta mortalità (40-50%) (3). L’indicazione al trapianto in pazienti con epatite alcolica acuta è oggetti di forti discussioni e per questo motivo sono diversi i punteggi prognostici che tentano di individuare la gravità di ogni singolo paziente (Il Discriminant Factor di Maddrey (7), il Glasgow Alcoholic Hepatitis Score –GAHS-, il modello Lille, il punteggio ABIC). Si tratta di pazienti che sino a poco tempo fa non venivano considerati per questa opzione per vari motivi. Il dato crudo è che questi pazienti se non rispondono ad una terapia medica, presentano una mortalità a 6 mesi di oltre il 70% (1). La terapia medica con corticosteroidi e/o pentossifillina permette un vantaggio del 50% in termini di sopravvivenza (3).
Si tratta di pazienti che raramente giungono all’esame per una proposta di trapianto di fegato, a causa della regola dei 6 mesi di astinenza (3). Per definizione si tratta infatti di pazienti che bevevano fino a 3 settimane prima dell’insorgenza della epatite acuta. Rappresentano un problema etico. In realtà pazienti con epatite acuta alcolica e trapiantati hanno evidenziato una sopravvivenza molto elevata a 2 anni rispetto a quelli non trapiantati (73% vs 23%) (4).
La sopravvivenza dopo trapianto di fegato di questi pazienti è simile ai pazienti operati per altre patologie acute. In conclusione un trapianto potrebbe essere proposto a questa categoria di pazienti se l’episodio di epatite alcolica acuta sia il primo, se non si ottenga risposta ad una terapia medica e se ci sia un ottimo supporto psicosociale (3). Alcuni Autori (6) propongono che tali pazienti, se non responsivi ad una terapia medica, essendo ad elevatissimo rischio di morte nel giro di 6 mesi, e considerati buoni risultati dopo trapianto, debbano essere proposti immediatamente ad un trapianto, senza attendere una astinenza dall’alcol.

In conclusione sembra che i pazienti affetti da alcolismo debbano essere considerati dei pazienti malati che sviluppano le complicanze della loro malattia di base. Essendo i risultati del trapianto buoni, anche a distanza, per i pazienti con cirrosi epatica alcolica in progressione e per coloro che siano affetti da una epatite alcolica acuta, la prescrizione di 6 mesi di astinenza dall’alcol, in alcuni casi può essere fatale e precludere una possibilità terapeutica efficace. L’identificazione di fattori predittivi di recidiva più evidenti, sembra molto importante (supporto familiare, comorbidità psichiatriche, anamnesi di uso di droghe, adesione alle prescrizioni mediche ed agli appuntamenti, storie familiari di alcolismo etc).

1) GA Berlakovich: World J Gastroenterol 2014 July 7, 20 (25):8033-39
2) MM Jaurigue: World J Gastroenterol 2014 March 7; 20(9): 2143-2158
3) AK Singal: World J Gastroenterol 2013 September 28; 19(36): 5953-5963
4) P Mathurin: N Engl J Med 2011;365:1790-1800
5) R Kahn: World J Gastroenterol 2014 September 14; 20(34): 11935-11938
6) G Testino: World J Gastroenterol 2014 October 28; 20(40): 14642-14651
7) HH Tan: Mount Sinai J of Medicine 76:484–498, 2009