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Meno ritrapianti, e migliorie nei ritrapianti per pazienti HCV

Negli ultimi anni la terapia dell’Epatopatia HCV positiva è migliorata. Sino a pochi anni fa il 70% dei pazienti trapiantati per epatopatia HCV positiva presentava già entro il primo anno una epatite cronica C (Song). Nei pazienti trapiantati inoltre tale recidiva procede con una velocità maggiore che nei pazienti immunocompetenti evolvendo in una fibrosi dopo 9-12 anni ed in una cirrosi dopo 20-30 anni. Il 15-20% dopo 10 anni evolveva in uno scompenso epatico o in un tumore epatico (Bunchorntavakul).
Il ritrapianto in questi pazienti rappresenta una opzione complessa che, sino a pochi anni fa, aveva risultati in genere peggiori del primo trapianto.

Risultati immagini per farmaci antivirus C

Le strategie di trattamento dei pazienti affetti da viremia HCV candidati al trapianto sino a poco tempo fa erano le seguenti: 1) trattamento dei pazienti con cirrosi in attesa di trapianto 2) profilassi antivirale con inizio del trattamento al momento del trapianto e proseguita 3) trattamento iniziato nei primi 6 mesi dopo il trapianto 4) terapia antivirale quando la patologia fosse ormai già presente (Bunchorntavakul).

Uno studio nel 2016 (song) evidenziava che tra i fattori predittivi di buoni risultati dopo ritrapianto per recidiva di una epatopatia HCV, vi erano una assenza di viremia del virus C prima del ritrapianto, una terapia antivirale specifica dopo il ritrapianto, un genotipo virale diverso dall’1, un punteggio MELD < 25 e l’età del donatore del ritrapianto < 60 anni.
I primi due fattori sono quelli che sono evoluti nel tempo in quanto le modalità per ottenere quei risultati sono cambiati; mentre sino a qualche anno fa si utilizzavano farmaci quali l’Interferone e la Ribavirina con una percentuale di eradicazione del virus C del 30% (Bunchorntavakul) ed il cui uso era associato a volte a gravi effetti collaterali, recentemente l’introduzione dei Direct-acting antiviral agents (DAA) ha migliorato radicalmente i risultati. Si tratta di boceprevir e telaprevir e, recentemente, di sofosbuvir e simeprevir attivi soprattutto verso il virus C genotipo 1.

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Con tali farmaci antivirali, la percentuale di ritrapianti per recidiva di epatopatia HCV nel primo anno post-trapianto negli USA è diminuita dal 20% nel 2005 all’1,2% nel 2014 (cholankeril).
Gli ultimi dati indicano che la percentuale di pazienti HCVRNA positivi, cioè con virus attivi, che eliminano il virus con le recenti terapie antivirali, è nettamente aumentata, rappresentando nei pazienti sottoposti a ritrapianto o da ritrapiantare un fattore prognostico positivo.

Song ATW, World J Gastroenterol 2016 May 14; 22(18): 4547-4558
Bunchorntavakul, Journal of Clinical and Translational Hepatology, 2014 vol. 2 | 124–133
Cholankeril G, J Viral Hepat. 2017;24:1194–1195
Croome 2018 AJT proof

Colecistectomia laparoscopica: casi particolari

Oggi il 90% delle colecistectomie sono effettuate con tecnica laparoscopica. La tecnica ricalca quella della colecistectomia laparotomica nel senso che nel corso dell’intervento è necessario una dissezione del triangolo di Calot.

Calot’s Triangle This is an anatomical space bounded by the common hepatic duct, the cystic duct and the inferior border of the liver.

Per triangolo di Calot, originariamente, si intendeva lo spazio tra dotto cistico, via biliare principale ed arteria cistica; attualmente si intende lo spazio tra dotto cistico, via biliare principale e margine inferiore del fegato: questo spazio è dunque attraversato dalla arteria cistica. Un interessante video reperibile in internet sulla tecnica della colecistectomia laparoscopica è riportato nel link qui sotto. Un particolare interessante è che la arteria cistica è spesso situata sotto un linfonodo presso il dotto cistico (Swanstrom).
Nel corso degli anni il numero delle controindicazioni alla colecistectomia per via laparoscopica è progressivamente diminuito. Rimangono in parte i casi con sospetto di ca. della colecisti, i casi con impossibilità ad identificare correttamente le strutture anatomiche e i casi con gravi disturbi della coagulazione.
Un cenno particolare deve essere fatto su tre situazioni: l’esistenza di chirurgia pregressa; una gravidanza; la cirrosi epatica.
Una chirurgia pregressa si accompagna spesso alla presenza di aderenze che a loro volta sono associate ad una maggiore rischio di conversione, cioè alla impossibilità di procedere per via laparoscopica. Sono ovviamente maggiormente a rischio coloro che sono stati operati a livello dell’addome superiore che non nell’inferiore. In realtà non tutti i pazienti con precedenti interventi chirurgici hanno aderenze, e, al contrario, l’assenza di una chirurgia pregressa non esclude la esistenza di aderenze.
Per quanto riguarda le gravidanze, ogni intervento chirurgico in gravidanza deve essere attentamente valutato; nei primi giorni di esperienze in laparoscopia si pensava che il pneumoperitoneo potesse diminuire il flusso sanguigno all’utero, determinare una acidosi fetale, e comunque una sofferenza fetale; questi rischi probabilmente sono stati sovrastimati. La laparoscopia ha dimostrato di essere sicura anche per il feto. Le indicazioni chirurgiche classiche, in caso di necessità di intervento, dicevano che era meglio aspettare dopo il secondo trimestre di gravidanza per intervenire; oggi si ritiene che si possa intervenire in tutti i trimestri della gravidanza; è necessario comunque tener presente che nel terzo trimestre l’utero ingrossato occupa gran parte della cavità addominale modificando quindi i piani anatomici. Nel caso di pazienti con patologia sintomatica della colecisti, procrastinare l’intervento può essere pericoloso e quindi è consigliabile un intervento chirurgico. Per facilitare l’operazione la paziente in sala operatoria dovrebbe essere ruotata a sinistra per allontanare l’utero dalla vena cava ed il gas impiegato dovrebbe essere mantenuto a basse pressioni; ovviamente la posizione dei trocar deve essere modificata in relazione alla posizione dell’utero.
I pazienti con cirrosi epatica ed ipertensione portale sono a rischio per qualsiasi intervento, non solo per una colecistectomia: il posizionamento degli accessi deve prestare attenzione ad eventuali circoli collaterali superficiali. Un altro rischio è il sanguinamento dal letto della colecisti che potrebbe essere evitato identificando correttamente il piano di scollamento della colecisti, inoltre utilizzando apparecchiature particolari come le pinze bipolari o specifici agenti emostatici come colle di fibrina e simili.

– Lee Swanstrom, 2013, 4a edizione, Mastery of endoscopic and laparoscopic surgery
-http://pie.med.utoronto.ca/tvasurg/tvasurg_content/assets/masterFolders/PB_difficultCholecystectomyModule/module/content/overview_standard/index.html

Piatrinopenia ed embolizzazione della milza.

Una carenza di piastrine è frequente in pazienti affetti da cirrosi epatica. Ho voluto qui accennare ad alcuni aggiornamenti in proposito.

Una piastrinopenia può essere dovuta a varie cause: un sequestro di piastrine in una milza aumentata di volume, consumo di alcol, deficit di folati, alterata produzione di piastrine da depressione midollare ad eziologia virale, sepsi, farmaci, cause immunologiche, diminuita produzione epatica di trombopoietina nei cirrotici;  una piastrinopenia è presente in una ampia percentuale di casi (11-64%, Omer) in un quadro di ipersplenismo ed ipertensione portale, nei pazienti cirrotici giungendo anche a forme severe nel 13% dei pazienti (Gangireddy 2014) con un numero inferiore a 50.000/mm3.

Esistono diverse osservazioni di ipersplenismo anche di pazienti in lista per trapianto o dopo il trapianto (Mousa)

Alcuni autori segnalano che il costo terapeutico annuale in pazienti cirrotici con piastrinopenia sia il triplo di coloro che non presentano una piastrinopenia.  Le trasfusioni di piastrine non sono efficaci in quanto la loro emivita è molto breve ed inoltre per il fatto che presto si sviluppa una allo immunizzazione (Gangireddy).

Il trattamento della piastrinopenia nei pazienti con malattie epatiche è riassunto efficacemente da Gangireddy; sostanzialmente le procedure utilizzabili sono la splenectomia (aperta o) (Mousa 2012) laparoscopica, l’embolizzazione della milza e la Radiofrequenza.

Dopo splenectomia “aperta” l’incidenza di una complicanza quale la trombosi portale (Ikeda) sarebbe dell’8-10%. Tale incidenza sarebbe  ancora maggiore nelle splenectomie laparoscopiche (Gangireddy). Dopo splenectomia aperta si riferiscono anche fistole pancreatiche (Sibulesky);

Nel caso di situazioni con ipersplenismo e splenomegalia,  alcuni autori (Omer 2014)  hanno sperimentato con successo l’embolizzazione della milza.  I primi approcci di embolizzazione totale risalgono al 1973 (Sibulesky). Dal 1979 (Spigos) cominciarono ad essere riportati casi di embolizzazione parziale, interessando il 65% del parenchima splenico; la tecnica di embolizzazione parziale (PSE partial splenic embolization), preferibilmente selettiva distale inferiore, è oggi preferita rispetto a quella totale, per la minore incidenza di ascessi e di sepsi. Un fattore che viene ritenuto importante è che  evitando una splenectomia totale chirurgica si eviterebbe il rischio di una overwhelming post-splenectomy infection (OPSI)(Mousa);

Trombosi splenica o portale sono anche riportate (Yoshida) dopo PSE e riferite ad un a eccessiva riduzione del flusso portale con un aumento troppo rapido della conta piastrinica.

L’estensione della embolizzazione parziale sembra  mantenere una relazione nell’efficacia a lungo termine della embolizzazione (Moreno).

Tra le indicazioni alla PSE esistono in Letteratura diverse PSE in pazienti con Cirrosi da virus HCV con piastrinopenia che altrimenti non renderebbe possibile una terapia antivirale (Ikeda), o pazienti piastrinopenici candidati a radiofrequenza per epatocarcinoma che divennero trattabili dopo PSE con rialzo piastrinico; e trapianti epatici con ipersplenismo (Moreno, Mousa, Yoshida, Sockrider). I risultati sono sempre riferiti come positivi.

Omer riporta 4 casi nei quali essenzialmente il diametro bipolare della milza in pazienti cirrotici oscillava tra 16 e 22 cm; una embolizzazione sufficiente dovrebbe coinvolgere il 30 % (Lee) – 50% del tessuto splenico (Sockrider); l’effetto di innalzamento delle piastrine si avrebbe dopo 3 gg dalla procedura raggiungendo un picco dopo 1-2 settimane (Yoshida); tra gli effetti collaterali si segnala la cosiddetta sindrome post-embolizzazione (nausea, vomito, dolore, febbre) a volte con ascite o/e un versamento pleurico sx (Abdella, Hadduck).  La percentuale di complicanze maggiori nei pz cirrotici sarebbe del 3,7% mentre di mortalità dell’1% (Hadduck, Ikeda). Le complicanze maggiori avvengono soprattutto quando il parenchima splenico embolizzato è superiore al 70%.

L’aumento del numero delle piastrine (Ikeda 2014) avviene sia dopo splenectomia che dopo PSE anche se appare un po’ più spiccato dopo splenectomia. L’effetto sembra massimo dopo un mese dalla procedura.

Già nel 2002 Sockrider riportava 3 casi di PSE per ipersplenismo in trapiantati di fegato; Kim nel 2012 riporta 11 casi di pz sottoposti a trapianto ed affetti da piastrinopenia o ascite dopo il trapianto; embolizzando il 30-60% del parenchima splenico i risultati furono efficaci sia per la piastrinopenia che per l’ascite. In 2 casi ci fu una recidiva della piastrinopenia.

In conclusione, in base ai dati attuali della Letteratura,  il trattamento con SPE della piastrinopenia soprattutto da ipersplenismo sembra una opzione promettente nel suo trattamento. Inizialmente impiegato nei pazienti cirrotici o nei pz HCV positivi da trattarsi con terapia antivirale, anche  l’uso nei pazienti trapiantati di fegato sembra promettente ed efficace.

 

Omer S et al, J Gastrointestin Liver Dis, 2014; 23 (2):215-18

Ikeda N et al, Hepatology Research 2014; 44: 829–836

Gangireddy VGR et al, Can J Gastroenterol Hepatol 2014;28(10):558-564

Abdella HM et al,  Indian J Gastroenterol 2010 (March–April):29(2):59–61

Mousa A, 2012, Vascular and Endovascular Surgery 46(6) 501-503

Sibulevski L, World J Gastroenterol 2009 October 28; 15(40): 5010-5013

Barcena R, Moreno A , Transplantation 2005; 79: 1634-1635

Kim H, Transplantation Proceedings, 44, 755–756 (2012)

Yoshida H, Hepatology Research 2008; 38: 225–233

Spigos DG, AJR Am J Roentgenol 1979; 132: 777-782

Hadduck TA, World J Radiol 2014 May 28; 6(5): 160-168

Sockrider CS, Clin Transplant 2002: 16 (Suppl. 7): 59–61

L’epatite C ed il suo trattamento

L’epatite C ed il suo trattamento

L’infezione da virus dell’epatite C colpisce attualmente circa 160 milioni di persone nel mondo. Il 10-40% di queste svilupperà una cirrosi epatica con le sue complicanze. In particolare una infezione da HCV a lungo andare può condurre anche a danni renali cronici (Antimicrobial Agents and Chemotherapy 2013; 57 (12): p. 6097–6105). Si calcola che negli USA, nel 2020, vi saranno 109000 pazienti in dialisi affetti da infezione da virus dell’epatite C.
Allo scopo di proteggere tutti questi pazienti è necessario “eradicare” in modo permanente questo virus. L’eradicazione del Virus dell’epatite C è definita come la SVR, cioè una risposta virologica costante, consistente nella mancata identificazione dell’HCVRNA del virus nel siero per 4-24 settimane dopo la fine della terapia.
I primi tentativi di trattamento vennero fatti con un farmaco chiamato Interferone, in monoterapia. Le percentuali di efficacia del trattamento sono molto migliorate cambiando la struttura della molecola (cosidetta pegilazione) di interferone ed aggiungendo Ribavirina, e più recentemente altri farmaci come il telaprevir ed il boceprevir.
L’efficacia del trattamento dipende dai genotipo del virus.Ad oggi sono stati identificati 6 genotipi (1-6) del virus dell’epatite C, e diversi sottotipi (a,b,etc). Con una terapia a base di due farmaci, perginterferone alfa e ribavirina, la risposta varia a seconda del genotipo essendo del 40-50% per i pazienti affetti da virus di genotipo 1 e 4, e del 70-80% per i genotipi 2 e 3. Quando poi il boceprevir ed il telaprevir vengono aggiunti ad un trattamento con perginterferone alfa e ribavirina nei pazienti affetti da infezione da virus HCV di genotipo 1, la risposta aumente del 25-31%.

Nel dicembre 2013 la FDA statunitense approvò altri due farmaci: il simeprevir (in associazione con perginterferon e ribavirina) per le infezioni da genotipo 1; il sofosbuvir per i genotipi 1 e 4 (in associazione con perginterferon e ribavirina) e per i genotipi 2 e 3 (con la ribavirina).
Questi due farmaci hanno aumentato la risposta SVR sino all’80-90%. Inoltre si tratta di farmaci che vengono in genere ben tollerati, i loro schemi di trattamento sono più semplici e presentano meno interazioni con altri farmaci. Le linee guida per l’impiego di tali prodotti sono state elaborate dall’European Association for the Study of the Liver (EASL) e dall’American Association for the Study of the Liver Diseases (AASLD). Tali linee guida sono state modificate dopo l’introduzione del telaprevir e del boceprevir, soprattutto per i genotipi 1. Vista comunque la rapidità di evoluzione dello scenario farmacologico, a volte è difficile seguire tutti gli aggiornamenti (Clin Pharmacokinet (2014) 53:409–427).