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Ascesso epatico da perforazione gastrica di corpo estraneo (Hepatic abscess from transgastric foreign body).

Si tratta di una patologia considerata rara, ma in Letteratura esistono numerosi articoli sull’argomento. Il primo caso sembra sia da attribuirsi a A. Lambert nel 1898 (rif Chong). Si tratta solitamente di “case reports”. Una ingestione di corpi estranei (CE) è abbastanza frequente ma complicanze si avrebbero solo nell’1% dei casi (Goncalves, Carver, Bostanci).

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Gli ascessi epatici sono complicanze di bassa incidenza (2.3/100000/anno – Barquez) dovuti a varie eziologie quali chirurgiche, traumatiche, parassitarie etc). La mortalità per ascesso epatico si situerebbe tra il 2-12% (Basquez).
I sintomi, che possono comparire anche mesi dopo l’ingestione di un CE (Carver, Bostanci), sono dati da dolore in ipocondrio destro, febbre (Chong), leucocitosi (Basquez), innalzamento della fosfatasi alcalina, a volte ittero.
La eziologia ascessuale da CE riguarda solitamente pazienti in età medio-avanzata (Basquez, Goncalves, Chong, Jutte) ma non solo (Carver, Bostanci); la causa è dovuta, in frequenza decrescente (Chong), a spine di pesce (Goncalves), stuzzicadenti (Chong), ossa di pollo ed aghi da cucito (Basquez, Carver). In un pubblicazione del 2019 si segnalavano 62 casi in Letteratura di perforazioni dovute a spine di pesce (Goncalves). 23 casi venivano riportati sino al 2019 come dovuti ad aghi da cucito (Bostanci).

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La diagnosi pretrattamento è oggi più frequente e secondaria solitamente ad una TAC addominale (Basquez, Goncalves, Carver, Chong). La perforazione risiede spesso a livello gastrico all’antro (Basquez, Chong) o a livello duodenale e colico (Chong). La sede dell’ascesso, di dimensioni variabili (circa 4 cm sec Basquez, 7 cm sec Chong) interessa spesso il lobo sinistro epatico (Basquez, Goncalves, Carver, Chong). Comunque, un corpo estraneo ed un ascesso possono localizzarsi per perforazione gastrica anche nel lobo epatico destro (Bostanci, Chong).
Uno studio di Chong su 88 casi in Letteratura riporta una unica eziologia ascessuale batterica nel 54,5% dei casi; i germi più spessi identificati erano lo Str.species (72.3%), E.Coli (17%) e Klebsiella pneumoniae (10,6%); Secondo altri Autori l’agente batterico riscontrato erano uno Streptococcus Viridans (Basquez), Str. Anginosus e Eikenella Corrodens (Goncalves) (due batteri dell’orofaringe) oppure Gram neg quali E.Coli, K Pneumoniae ed anaerobi.
Il trattamento è legato alla eziologia ed al numero e dimensioni degli ascessi. Comprende in genere l’uso precoce di antibiotici inizialmente ad ampio spettro (piperacillin-tazobactam e metronidazolo sec Goncalves;) o cefalosporine di seconda generazione (Cefoxitina)(Chong) e poi mirato dopo puntura esplorativa percutanea (Goncalves); Chong utilizza nel suo Case Report Cefriaxone e Metronidazolo e quindi levofloxacina dopo la dimissione.
Un trattamento chirurgico è più spesso laparotomico (Basquez) o laparoscopico; si procede al drenaggio dell’ascesso (Jutte), alla asportazione del CE (Jutte e poi Carver, e Bostanci in laparoscopia in assenza di ascesso) ed eventualmente alla riparazione della perforazione gastrica se evidente (a volte si usa il blue di metilene); eventualmente se non evidenti perforazioni può essere sufficiente una omento plastica (Goncalves).
L’asportazione del CE sembra sarebbe importante per evitare recidive ascessuali (Goncalves, Chong). A volte risulta possibile per via endoscopica (Chong); La localizzazione del CE, se all’interno del fegato a volte necessita di una fluoroscopia intraoperatoria e quindi di una incisione laparoscopica del parenchima (Bostanci).

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Per quanto riguarda l’ascesso, questo può non essere drenato ma trattato semplicemente con antibiotici (Chong); un drenaggio dell’ascesso può essere effettuato per via percutanea (Goncalves), mentre un approccio di drenaggio chirurgico, preferibile per una successiva degenza ospedaliera più breve secondo Chong, è indicato nei casi di ascessi multiloculari (Basquez).

Basquez, DOI: 10.7759/cureus.8924
Chong, doi:10.3748/wjg.v20.i13.3703
Carver, doi.org/10.1016/j.ijscr.2018.09.012
Jutte, DOI 10.1100/tsw.2010.142
Bostanci, doi: 10.5505/tjtes.2016.48995
Goncalves, DOI: 10.1159/000497333

Emorragia intraepatica spontanea

Una rottura spontanea di una lesione epatica è un evento raro che può mettere a repentaglio la vita del paziente e che deve essere prontamente trattata (Bertacco). 
Dopo gli adenomi, l’epatocarcinoma (HCC) è la seconda patologia che per frequenza può dar luogo ad una complicanza emorragica. L’incidenza di rottura secondo alcuni si situerebbe tra il 3 ed il 15%, o tra il 3 ed il 26% (Singhal), con una incidenza di mortalità ospedaliera tra il 7 ed il 25%, secondo altri tra il 32% ed il 66% e tra il 25 ed il 100% (Yoshida). La frequenza di rottura di un HCC sarebbe molto più elevata in Asia (26%) rispetto all’Occidente (3%) (Yoshida). I dati sulla frequenza della rottura di un HCC sono comunque variabili: in realtà in base ad uno studio Giapponese del 2014 su 50000 casi di HCC, una rottura si ebbe nel 2,3% dei pazienti (Aoki).
La patogenesi della rottura di un HCC non è chiara e potrebbe essere legata ad una alterazione dei vasi afferenti prevalentemente arteriosi, ad uno stato di congestione, ad un episodio di coagulopatia, ad una rapida crescita con necrosi tumorale, sanguinamento intralesionale, quindi rottura della capsula e sanguinamento all’esterno (Singhal, Yoshida). L’emorragia sarebbe più frequente nei casi con funzione epatica maggiormente compromessa. Fattori di rischio per la rottura sarebbero uno diametro maggiore del tumore, un punteggio di Child-Pugh peggiore, un maggiore numero di piastrine, una età inf ai 60 anni e nei pazienti HBsAg positivi (Aoki). Nel caso di Epatocarcinomi, si sono avuti casi di rottura anche in seguito a TACE o in trattamento con Sorafenib.
Un emangioma invece (Moccheggiani), in uno studio su 157 angiomi con diametro > 4 cm, avrebbe un rischio di rottura del 3,2%, se superiore ai 4 cm di diametro; negli emangiomi con diametro < 4 cm, il rischio di rottura sarebbe nullo; invece, sarebbe del 10,8% per gli emangiomi giganti (> 4 cm) se periferici ed esofitici; e dell’1% per gli emangiomi giganti centroepatici. Il rischio sarebbe maggiore per gli emangiomi nel lobo sn rispetto a quelli siti a dx (Yoshida). Altri ritengono che vi sia maggior rischio in donne giovani, rispetto agli anziani, con lesioni di diametro di almeno 11 cm, prima di una gravidanza oppure all’inizio di terapie a base di estrogeni o anticoagulanti (Donati). Comunque la rottura spontanea di un angioma è molto rara.
La frequenza di emorragia degli adenomi è, come detto, elevata, essendo intorno al 14% (Nault, in uno studio su 411 pazienti) o, secondo altri del 15-20%. Un fattore di rischio sarebbero le lesioni con diametro superiore ai 5 cm, ma si sono avute emorragie anche da lesioni più piccole.

In caso di rottura di un HCC la mortalità sarebbe del 20% e comunque elevata (Singhal) soprattutto nei pazienti cirrotici.
Clinicamente il sintomo più frequente è il dolore acuto e lo stato di shock (Yoshida, Orcutt).
La diagnosi di una massa emorragica come un epatocarcinoma rotto è difficile: alcuni autori (Singhal) nel caso di rottura di un HCC parlano dell’esistenza alla TAC contrasto in fase arteriosa dell’”enucleation sign”: si evidenzierebbe cioè una discontinuità della superficie del fegato in una lesione ipercaptante e centralmente ipocaptante come da necrosi.
Il trattamento consta di due fasi: 1) il controllo dell’emorragia (resezione chirurgica d’urgenza, embolizzazione arteriosa ossia TAE, packing, sino al trapianto; una embolizzazione arteriosa sarebbe efficace nel controllo dell’emorragia nel 53-100% dei casi (Yoshida). 2) il trattamento definitivo del tumore.
Una resezione chirurgica in primis in urgenza non è sempre consigliabile (Yashida) per le condizioni del paziente al momento dell’emorragia; secondo alcuni tale strategia ha una mortalità ospedaliera del 16,5-100% (Yashida); spesso il trattamento è preferibile effettuarlo in due tempi; in un paziente emodinamicamente instabile il trattamento iniziale può consistere in una Embolizzazione arteriosa (TAE) o nel cosiddetto packing (compressione con garze) o nella legatura periferica dell’arteria epatica propria (Yashida) se una TAE non è efficace. Alcuni autori, a scopo emostatico, hanno effettuato il controllo della fase acuta con una Radiofrequenza circonferenziale all’area emorragica (Bertacco).
Il trattamento migliore in urgenza è considerata la TAE in quanto una laparotomia in urgenza in questi pazienti è sempre una procedura a rischio (Yoshida). Tale procedura potrebbe anche non essere ben tollerata in pazienti con punteggio di Child-Pugh avanzato, con un MELD > 10, o pazienti con trombosi portale; nel caso la TAE non sia effettuabile è necessaria una chirurgia in urgenza che consisterebbe in un “packing” con contemporaneo intermittente clampaggio portale.
Il secondo tempo del trattamento, quindi successivo e definitivo, è la resezione chirurgica in elezione. Questa può effettuarsi anche dopo qualche mese. La resezione chirurgica in due tempi (cioè p.e. dopo una TAE), se confrontata con la resezione immediata, presenta una mortalità ospedaliera molto più bassa (0-9% rispetto a 50%)(Yoshida).
La sopravvivenza dei pz con rottura di un HCC, in base ad un ampio studio di Aoki in Giappone nel 2014 su 1106 HCC con rottura spontanea, è inferiore a quella di pazienti con HCC senza rottura: la sopravvivenza a 5 anni è del 13% vs 45% rispettivamente nei pz con HCC rotto o integro. Di per sé quindi la rottura di un HCC è un fattore prognostico negativo (Yoshida).

Mocchegiani 2016, Dig and Liver Dis, 48:309-14
Bertacco A, Journal of Medical Case Reports (2017) 11:54
Singhal 2016, J Clin Exp. Hepatology, 6,335-6
Yoshida 2016, hepatology Research, 46:13-21
Orcutt 2016, Jama Surgery, 151 (1):83-4
Donati 2011, J Hepatobiliary Pancreat Sci, 18:797–805
Aoki T, 2014, Ann Surg, 259:532–542
Nault JC, Gastroenterology 2017;152:880–894

 

 

Angiomi del fegato: diagnosi differenziale e terapia.

Gli angiomi del fegato rappresentano il 73% dei tumori benigni del fegato, con una frequenza dello 0,4-7,3% nelle autopsie e, dopo le metastasi, rappresentano la neoformazione più frequente del fegato [2]. Sono più frequenti nelle donne, avvalorando l’ipotesi di una possibile con-causa ormonale (uso di contraccettivi a base di estrogeni, influenza della pubertà e della gravidanza). Angiomi giganti sono in genere definiti quelli con diametro > 4 cm di diametro, ma si tratta di una definizione probabilmente riduttiva ed il termine andrebbe piuttosto riferito  a quelli > 10 cm [2].

Un emangioma non ha evoluzione maligna [2,8]). Le complicanze emorragiche da rottura sono molto rare riportate con una incidenza < 1% [4] o 1,2% [8]: vi sono solo 50 casi di rottura spontanea in Letteratura e 5 traumatica [2].

Nella decisione se trattare o meno un angioma, è importante sapere con una certa certezza se si possa fare diagnosi di angioma o invece di angiosarcoma, che è invece un tumore epatico molto raro (2% dei tumori epatici –[10]-; incidenza di 0,5-1 caso per milione di abitanti –[3]-, solo 64 casi riportati in Letteratura sino al 2014 –[4]-) ma estremamente maligno.

Sembra che l’angiosarcoma abbia una maggiore incidenza nei casi di malattia epatica quale la emocromatosi o dopo esposizione a cloruro di vinile, un composto utilizzato nella produzione dei materiali in PVC. Alcuni ipotizzano una relazione anche con anabolizzanti androgenici [4]. L’angiosarcoma epatico rappresenta il 5% di tutti gli angiosarcomi [4]; colpisce soprattutto il sesso maschile, tra i 50 ed i 70 anni, è spesso sintomatico (emoperitoneo nel 15-27% dei pazienti secondo Zheng [4], compressione di strutture vascolari [3]) ed appare spesso come una lesione multifocale [3,6,7,10] con lesioni in entrambi i lobi del fegato [3] in un paziente già prostrato dalla malattia [3]. Alcuni autori suggeriscono l’importanza del rapido accrescimento di una lesione considerata un angioma sulla base di un caso di rapido accrescimento e di rottura [4.5].

In definitiva nella diagnosi differenziale tra angioma ed angiosarcoma si possono considerare i fattori sopradetti: l’angiosarcoma colpisce più spesso il sesso maschile, in età avanzata, è multifocale, a volte si associa con l’emocromatosi, spesso si presenta con una sintomatologia o con un quadro di rottura con emorragia della lesione; infine un fatto che potrebbe essere importante è che l’angiosarcoma o quantomeno le sue metastasi sono positive alla PET con FDG [6].

Purtroppo una diagnosi di certezza tra angioma e angiosarcoma il più delle volte è difficile da ottenersi prima della asportazione della neoformazione, ed è basata su studi di immunoistochimica dell’angiosarcoma [4,6,7]. Una biopsia può essere pericolosa e spesso non diagnostica [4].

La prognosi per l’angiosarcoma è pessima, con rapidissima progressione (pochi mesi) e decesso riportato in genere dopo 6 mesi dalla diagnosi [4]; la resezione è spesso seguita da una recidiva [3] ed il trapianto di fegato attualmente non è indicato visti i risultati disastrosi in termini di recidiva [3].

Gli angiomi epatici invece, non necessitano in genere di essere trattati; divengono in genere oggetto di trattamento nel caso di sintomatologia (dolori), o nel dubbio diagnostico con gli angiosarcomise caratterizzati da rapido accrescimento (circa 11-17% delle indicazioni alla chirurgia-[8,9]),  in caso di rottura o di emorragia intralesionale, nella sindrome di Kasabach-Merritt – grave coagulopatia con piastrinopenia- e nel caso di compressione di organi o vasi (ostruzione allo svuotamento gastrico – gastric outlet obstruction -, e nella s. di Budd chiari)[2].

Le dimensioni di per se non rappresentano una indicazione al trattamento [2]. Uno studio recente [8] effettuato in 6 ospedali USA e riguardante 241 pazienti con angioma sottoposti a chirurgia, suggerisce come unico motivo di intervento chirurgico la presenza di dolori mentre contesta la correttezza di indicazioni quali l’incertezza di una diagnosi – che dovrebbe essere quasi sempre possibile – o l’aumento di volume. Ma non tutti gli autori sono d’accordo [9].

In ambito terapeutico medico, in alcuni casi si sono usati farmaci monoclonali attivi contro alcuni fattori di crescita (VEGF) angiogenici.

Nel caso si decida per un intervento le opzioni sono: la chirurgia, tramite resezione o enucleazione (quest’ultima tecnica a volte fonte di sanguinamento [11]); va detto comunque che la terapia chirurgica comporterebbe un rischio di mortalità dello 0,8%, entro 30 giorni dall’intervento [8], dato quindi da non trascurare per una patologia benigna.

Una seconda opzione è la embolizzazione trans-arteriosa – ma si tratta di una terapia non risolutiva [1] –; oppure, come recentemente riportato, la termo ablazione percutanea o laparoscopica [1,12], o con Micro-onde nel caso di emangiomi  > 5 cm di diametro [12]. Quest’ultima opzione è meritevole di attenzione come possibilità mininvasiva di trattamento.

 

1) Emerson E. Sharpe III: J Vasc Interv Radiol 2012; 23:971–975
2) Toro A.: Annals of Hepatology , 2014; 13 (4): 327-339
3) Orlando  G: Transplantation 2013;95: 872-877
4) Zheng Y-W: Journal of Gastroenterology and Hepatology 29 (2014) 906–911
5) Okano A: Intern. Med. 2012; 51: 2899–904
6)Thapar S: Radiology Case. 2014 Aug; 8(8):24-32
7) Huang H: Quant Imaging Med Surg 2014;4(4):291-293
8) Miura JT: HPB 2014, 16, 924–928
9) Groeschl RT: Hepatogastroenterology. 2014 Oct;61(135):2009-13
10) Bruegel M: Abdom Imaging (2013) 38:745–754
11) Ulas M: Hepatogastroenterology. 2014 Jul-Aug;61(133):1297-301
12) Tang XY: J Dig Dis. 2014 Jun 19. doi: 10.1111/1751-2980.12169. [Epub ahead of print]