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Ascesso epatico da perforazione gastrica di corpo estraneo (Hepatic abscess from transgastric foreign body).

Si tratta di una patologia considerata rara, ma in Letteratura esistono numerosi articoli sull’argomento. Il primo caso sembra sia da attribuirsi a A. Lambert nel 1898 (rif Chong). Si tratta solitamente di “case reports”. Una ingestione di corpi estranei (CE) è abbastanza frequente ma complicanze si avrebbero solo nell’1% dei casi (Goncalves, Carver, Bostanci).

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Gli ascessi epatici sono complicanze di bassa incidenza (2.3/100000/anno – Barquez) dovuti a varie eziologie quali chirurgiche, traumatiche, parassitarie etc). La mortalità per ascesso epatico si situerebbe tra il 2-12% (Basquez).
I sintomi, che possono comparire anche mesi dopo l’ingestione di un CE (Carver, Bostanci), sono dati da dolore in ipocondrio destro, febbre (Chong), leucocitosi (Basquez), innalzamento della fosfatasi alcalina, a volte ittero.
La eziologia ascessuale da CE riguarda solitamente pazienti in età medio-avanzata (Basquez, Goncalves, Chong, Jutte) ma non solo (Carver, Bostanci); la causa è dovuta, in frequenza decrescente (Chong), a spine di pesce (Goncalves), stuzzicadenti (Chong), ossa di pollo ed aghi da cucito (Basquez, Carver). In un pubblicazione del 2019 si segnalavano 62 casi in Letteratura di perforazioni dovute a spine di pesce (Goncalves). 23 casi venivano riportati sino al 2019 come dovuti ad aghi da cucito (Bostanci).

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La diagnosi pretrattamento è oggi più frequente e secondaria solitamente ad una TAC addominale (Basquez, Goncalves, Carver, Chong). La perforazione risiede spesso a livello gastrico all’antro (Basquez, Chong) o a livello duodenale e colico (Chong). La sede dell’ascesso, di dimensioni variabili (circa 4 cm sec Basquez, 7 cm sec Chong) interessa spesso il lobo sinistro epatico (Basquez, Goncalves, Carver, Chong). Comunque, un corpo estraneo ed un ascesso possono localizzarsi per perforazione gastrica anche nel lobo epatico destro (Bostanci, Chong).
Uno studio di Chong su 88 casi in Letteratura riporta una unica eziologia ascessuale batterica nel 54,5% dei casi; i germi più spessi identificati erano lo Str.species (72.3%), E.Coli (17%) e Klebsiella pneumoniae (10,6%); Secondo altri Autori l’agente batterico riscontrato erano uno Streptococcus Viridans (Basquez), Str. Anginosus e Eikenella Corrodens (Goncalves) (due batteri dell’orofaringe) oppure Gram neg quali E.Coli, K Pneumoniae ed anaerobi.
Il trattamento è legato alla eziologia ed al numero e dimensioni degli ascessi. Comprende in genere l’uso precoce di antibiotici inizialmente ad ampio spettro (piperacillin-tazobactam e metronidazolo sec Goncalves;) o cefalosporine di seconda generazione (Cefoxitina)(Chong) e poi mirato dopo puntura esplorativa percutanea (Goncalves); Chong utilizza nel suo Case Report Cefriaxone e Metronidazolo e quindi levofloxacina dopo la dimissione.
Un trattamento chirurgico è più spesso laparotomico (Basquez) o laparoscopico; si procede al drenaggio dell’ascesso (Jutte), alla asportazione del CE (Jutte e poi Carver, e Bostanci in laparoscopia in assenza di ascesso) ed eventualmente alla riparazione della perforazione gastrica se evidente (a volte si usa il blue di metilene); eventualmente se non evidenti perforazioni può essere sufficiente una omento plastica (Goncalves).
L’asportazione del CE sembra sarebbe importante per evitare recidive ascessuali (Goncalves, Chong). A volte risulta possibile per via endoscopica (Chong); La localizzazione del CE, se all’interno del fegato a volte necessita di una fluoroscopia intraoperatoria e quindi di una incisione laparoscopica del parenchima (Bostanci).

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Per quanto riguarda l’ascesso, questo può non essere drenato ma trattato semplicemente con antibiotici (Chong); un drenaggio dell’ascesso può essere effettuato per via percutanea (Goncalves), mentre un approccio di drenaggio chirurgico, preferibile per una successiva degenza ospedaliera più breve secondo Chong, è indicato nei casi di ascessi multiloculari (Basquez).

Basquez, DOI: 10.7759/cureus.8924
Chong, doi:10.3748/wjg.v20.i13.3703
Carver, doi.org/10.1016/j.ijscr.2018.09.012
Jutte, DOI 10.1100/tsw.2010.142
Bostanci, doi: 10.5505/tjtes.2016.48995
Goncalves, DOI: 10.1159/000497333

Epidemia da Coronavirus e Trapianti di Fegato

Link: https://onlinelibrary.wiley.com/doi/epdf/10.1111/ajt.15948

L’impatto dell’epidemia da Coronavirus sui programmi di Trapianto di fegato in Nord Italia

Nel Gennaio 2020 la Malattia 2019 del Nuovo Coronavirus  (COVID-19) diede luogo ad una pandemia globale, creando incertezza sulla gestione dei programmi di Trapianto di Fegato. La Lombardia in Italia fu la regione maggiormente colpita; al 10 Aprile 2020 il tasso di mortalità corrente per pazienti affetti da COVID-19 era del 18,3% (10.022 decessi) e gli ospedali in Lombardia furono costretti ad espandere la loro capacità di ricoveri in Rianimazione da 724 a 1381 letti per far fronte all’epidemia.

C’è stato un drastico calo nei donatori di fegato.

Dal 23 febbraio al 10 Aprile 2020, in Lombardia vennero effettuati 17 trapianti di fegato. L’età media dei donatori era di 49 anni (18-74) mentre quella dei riceventi di 55 (13-69). Il punteggio MELD medio è stato di 12 (6-24). Tutti i donatori erano stati sottoposti a “screening” per il SARS CoV-2 prima della donazione. Due riceventi, dopo il trapianto, risultarono positivi per COVID-19 ed uno di essi decedette in 30° giornata postoperatoria. Sedici pazienti sono vivi  (10 aprile 2020) dopo una media di 30 giorni dal trapianto (range 3-46). 10 pazienti sono stati dimessi

Questo studio non ha trovato motivi particolari per mettere in dubbio la sicurezza dei riceventi tali da arrestare l’operatività dei trapianti di fegato. Nell’articolo vengono riportati diversi suggerimenti chiave da considerare in circostanze simili. Comunque, considerando la complessità degli avvenimenti in corso di una pandemia virale, la cessazione o la riduzione della attività di trapianto di fegato può essere una necessità pragmatica.

Link: https://onlinelibrary.wiley.com/doi/epdf/10.1111/ajt.15948

Colecisti a porcellana

La colecisti a porcellana rappresenta una situazione in cui la parete interna della colecisti è calcifica. Sinomini ne sono colecisti calcificata, colecistite calcifica e cholecystopathia chronica calcarea. E’ un reperto spesso incidentale su un addome in bianco o con altra metodica diagnostica, con un paziente spesso asintomatico. Storicamente la sua importanza sta nel fatto che spesso tale condizione è stata associata alla insorgenza di cancri della colecisti (Machado).
L’estensione dell’interessamento della parete può essere limitato ad una porzione del rivestimento mucoso, sino ad interessare l’intera parete colecistica: è quest’ultimo il quadro più classico della definizione di colecisti a porcellana. Esisterebbero quindi sostanzialmente due tipi di colecisti a porcellana: quello in cui il coinvolgimento interessa solo la mucosa, e quello in cui tutta la parete della colecisti appare calcifica (Machado).
L’eziopatogenesi è legata alle stesse condizioni che determinano la litiasi della colecisti; si tratta quindi di tutte quelle situazioni di ristagno di bile in colecisti per un deflusso insoddisfacente della stessa. In senso stretto l’ipotesi è che la calcificazione interessi primitivamente lo stato muscolare, determinando quindi una devascolarizzazione della parete con successivo aumento della calcificazione.
L’incidenza sarebbe dell’1% di tutte le colecisti asportate chirurgicamente; le femmine ne sarebbero maggiormente affette con un rapporto di 5:1 rispetto ai maschi. L’età più spesso interessata si situa sopra i 60 anni. Nel 95% la colecisti a porcellana si associa alla presenza di colelitiasi; tale situazione cronica associata alla persistenza dei fattori causa di colelitiasi, sarebbero alla base del formarsi di una colecisti a porcellana.
Istologicamente, come detto, l’estensione dello stato calcifico è variabile. Nelle forme a macchia di leopardo si situano le condizioni più temibili per l’istaurarsi di una neoplasia; ciò sarebbe dovuto al formarsi di quadri infiammatori cronici della mucosa colecistica, siti tra le aree calcifiche (Machado). Nei casi di estesa calcificazione, la mucosa sparisce per cui essendo l’origine del ca. della colecisti dalla mucosa, il rischio sarebbe inferiore. Comunque, stabilire il rischio di neoplasia in base a queste caratteristiche deve essere preso ancora con prudenza (Machado).
Clinicamente il quadro può essere simile a quello di una calcolosi della colecisti, alla quale spesso la colecisti a porcellana si associa, ma nel 18% dei casi può essere asintomatico (Machado).
La diagnosi è spesso casuale, effettuata, nei casi con estesa calcificazione, con un Rx Addome in bianco (vedi immagine sopra) o una TAC (Patel). Anche una ecografia o una NMR possono suggerire la diagnosi. I dati di laboratorio sono spesso normali. Nei casi sintomatici la diagnosi differenziale viene posta con patologie infiammatorie intestinali o con ulcere o con quadri cardiaci o embolici.
La prognosi nei casi di colecisti a porcellana senza neoplasia è ottima; nel caso di cancro della colecisti è progressivamente più grave a seconda dello stadio della malattia neoplastica.
Il trattamento chirurgico è quello della colecistectomia, che sembra gravato da una maggiore incidenza di complicanze nei casi di colecisti a porcellana (Machado).
Esistono discussioni relative alla reale rischio di una colecisti a porcellana di determinare l’insorgenza di tumore della colecisti; tale evoluzione in termini percentuali sembra oggi ridimensionata. Mentre (Machado) alcune pubblicazioni non recenti riportavano una evoluzione neoplastica nel 7-60% dei casi, recentemente l’incidenza è stimata tra 0,8 e 6% (Machado, Schnelldorfer); sarebbe invece l’1% nei pazienti senza calcificazioni della colecisti. Ciò probabilmente è dovuta anche a diagnosi meno tardive rispetto ad un tempo (Machado). Il clinico, in presenza di una colecisti a porcellana, è facilitato nelle sue decisioni di procedere chirurgicamente nel caso la patologia sia sintomatica; nei casi asintomatici una decisione non è semplice: anche a causa delle complicanze chirurgiche possibili, sembra proponibile ai soggetti giovani, meno ovvia ad anziani nei quali sembra più appropriato un follow-up (Machado).
L’intervento è rappresentato classicamente dalla colecistectomia. Il trattamento laparoscopico sembra più complesso con un tasso di conversione a laparotomia del 5-25%. Complicanze nelle colecistectomie laparoscopiche usualmente intorno al 3% giungerebbero al 10-16% (Machado) nelle colecisti a porcellana. Sarà poi utile un attento esame istologico.

Bibliografia:

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/books/NBK518979/
Machado NO, Sultan Qaboos Univ Med J. 2016 Nov;16(4):e416-e421.
Patel NJ, Abdom Radiol (NY). 2017 Jan;42(1):322-323
Schnelldorfer T, June 2013, Volume 17, Issue 6, pp 1161–1168

MMF e leucopenia

Un aspetto che a volte si riscontra nella fase post-trapianto è una leucopenia/neutropenia.

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Anche se tale neutropenia può essere dovuta a molteplici fattori quali infezioni sistemiche da virus o altri patogeni, disordini maligni linfoproliferativi etc, la causa più frequente è dovuta all’uso di farmaci.
Dopo trapianto, in questo caso di rene, una neutropenia può essere dovuta a vari immunosoppressori (micofenolato, azatioprina, antitimoglobuline, rituximab), antibiotici o farmaci antivirali (thrimethoprin, ganciclovir, valganciclovir) o altri farmaci (inibitori di pompa protonica, inibitore dell’enzima di conversione dell’angiotensina).
Il MMF è uno dei farmaci che più frequentemente può indurre neutropenia; in Letteratura, per quanto riportato da Matsui, vengono riportati 6 studi che confermano questa associazione: studiando i tempi di insorgenza, ritenendo comunque che in origine il valore dei globuli bianchi fosse normale, pare che ci vogliano 80-160 giorni dall’inizio del trattamento con MMF per avere una neutropenia; a volte tale latenza potrebbe essere più breve (in media 79 giorni, 16-365) causa il concomitante uso di steroidi, che interferirebbero aumentando il micofenolato “libero” tossico, cioè non legato alle albumine; dosi basse di albumine inoltre possono aumentare la parte “libera” di MMF, risultando in una maggiore esposizione e tossicità.

Matsui K, Clin Exp Nephrol (2010) 14:637–640

Quando trattare una colecistite acuta

Una litiasi della colecisti è presente nel 10-15% della popolazione occidentale; una percentuale tra l’1 ed il 4% diviene sintomatica dopo un anno con coliche biliari o una colecistite acuta (10-20%, Endo). Una diagnosi di colecistite viene fatta in genere sul dolore in ipocondrio dx, un Murphy positivo, una temperatura > 37.5, un aumento dei GB > 10000 e della Proteina Reattiva C, un ispessimento delle pareti della colecisti.

Il trattamento specifico rimane quello chirurgico, ossia una colecistectomia laparoscopica (Brunee). Il momento migliore per intervenire per una colecistite acuta rimane ancora fonte di dibattito. Alcuni propongono un intervento nelle prime 72 ore dall’insorgenza dei sintomi, altrimenti la chirurgia deve essere posticipata oltre le 6 settimane; altri hanno dimostrato che le complicanze o le conversioni sono simili < 7 giorni e dopo le 6 settimane (rif Brunee).
Brunee ha effettuato uno studio su 276 colecistectomie suddivise tra quelle effettuate entro 3 giorni, quindi tra 4 e 7 giorni e quello oltre i 7 giorni; In quest’ultimo gruppo si osservò una maggiore durata dell’intervento, un maggior numero di complicanze e di complicanze gravi, un maggior tempo di ricovero ospedaliero; comunque, i pazienti operati tra 4 e 7 giorni ebbero risultati sovrapponibili a quelli operati < 4 giorni (Brumee) per cui il periodo in cui il paziente sarebbe operabile senza complicanze risiederebbe nella prima settimana dopo la comparsa dei sintomi.
Sulla stessa linea, considerando una colecistectomia precoce quella entro i 7 giorni e dilazionata quella oltre 7 giorni, alcuni autori effettuando una metanalisi (Song) basata su precedenti metanalisi; al termine di questo corposo studio, che al termine si concentra su 2 metanalisi, si osservò che non esistevano differenze in termini di mortalità, lesioni biliari, fistole biliari, complicanze e conversioni a chirurgia aperta; peraltro le colecistectomie precoci evidenziavano minori infezioni di ferita, durata di ospedalizzazioni e davano luogo a migliore qualità di vita. In conclusione gli autori davano preferenza alla colecistectomia precoce. 
Un ulteriore dato a favore di una colecistectomia effettuata tra 1-3 giorni dal ricovero ospedaliero, giunge da uno studio francese che ha coinvolto 42.452 pazienti operati di colecistectomia (Polo): in quei pazienti vi sarebbero una minore mortalità (rispetto al giorno stesso del ricovero e 3 giorni dopo), minore accesso in rianimazione, minore sepsi e minore frequenza di reinterventi. Nei pazienti operati nel giorno del ricovero, l’incidenza di morbidità e mortalità (21%) è elevata. Inoltre, nei pazienti ammessi in rianimazione prima dell’intervento, vi sarebbe una maggiore mortalità in quelli operati entro 3 giorni dal ricovero: in questi pazienti dovrebbe essere suggerita una preventiva terapia medica (Polo).
Un aspetto importante, sollevato anche da autori orientali (Yokoe), è rappresentato dai risultati in relazione alla gravità della colecistite acuta (Endo) ed alla modalità di trattamento (colecistectomia/ drenaggio percutaneo + colecistectomia/ semplice colecistectomia/ terapia medica): nei casi in cui si effettua una colecistectomia semplice i risultati sono peggiori nei pazienti con maggiore gravità della colecistite; al contrario nei pazienti trattati con drenaggio e quindi colecistectomia dilazionata, i risultati sono indipendenti dalla gravità della patologia.

Polo M, J Gastrointest Surg (2015) 19:2003–2010
Song G-M, Medicine (2016) 95:23
Endo I, J Hepatobiliary Pancreat Sci (2017) 24:346–361
Brunee L, Acta Chir Belg. 2018 Oct 25:1-7
Yokoe M, J Hepatobiliary Pancreat Sci. 2018 Jan;25(1):41-54

Polipi della colecisti – gallbladder polyps

Un polipo della colecisti è una protrusione della mucosa della colecisti nel suo lume. Essi si presentano nel 5% della popolazione, ma solo il 5% di questi sono veri polipi e potrebbero avere una potenzialità neoplastica.
Sono in genere asintomatici, ma in alcuni casi possono dar luogo a sintomatologia, quando probabilmente essi o loro detriti possono dare quadri ostruttivi.
I pseudo-polipi sono innocui, mentre i veri polipi possono evolvere in un temibile cancro della colecisti.
La diagnosi dovrebbe in primo luogo discriminare tra un calcolo ed un polipo; quindi distinguere tra un polipo vero ed un pseudopolipo, quindi stabilire le dimensioni di tali formazioni. Le modalità diagnostiche comprendono la ecografia addominale senza e con contrasto, la TAC e la Risonanza Magnetica. La presenza in ecografia di un aspetto a coda di cometa evoca un pseudopolipo, un polipo colesterinico. L’ecoendoscopia è una recente modalità diagnostica che sembra sia efficace ma solo per i polipi di dimensioni superiori ai 10 mm; in realtà nessuna delle tecniche sopradescritte permetterebbe però una sicura distinzione tra polipi veri e pseudopolipi di piccole dimensioni.
Il 70% dei polipi sospetti sono in realtà pseudo polipi (Wiles).
Ciò che sembra emergere dai diversi studi è che i polipi che degenerano sono quelli di dimensioni maggiori, e che il rischio di malignità aumenta nettamente con i polipi di dimensioni superiori ai 10 mm; per questi è indicata la colecistectomia; sembra anche che per i polipi di diametro inferiore ai 5 mm il rischio di malignità sia nullo (McCain); si consiglia quindi il follow-up dei polipi tra 4 e 10 mm; tale follow-up consisterebbe in 2 TAC a distanza di 6 mesi e quindi ogni anno sino a 5 anni; ma tale protocollo può variare in relazione a fattori di rischio (McCain). Questi sarebbero lo stato di unicità o di molteplicità dei polipi (i polipi multipli avrebbero minor rischio di evoluzione) (Wiles); il fatto che i polipi sessili sarebbero maggiormente a rischio di quelli peduncolati; l’età oltre i 50 anni, anche se i polipi abbiano un diametro tra 6 e 9 mm; l’appartenenza al gruppo etnico indiano (India e indiani d’America); una concomitante Colangite Sclerosante indipendentemente dal calibro del polipo (McCain); una concomitante litiasi della colecisti invece non aumenterebbe il rischio;

In uno studio istologico (XU) effettuato su 1446 colecistectomie per polipi della colecisti, l’87,1% erano rappresentati da lesioni colesteriniche (pseudo polipi), l’11,2% da lesioni benigne non colesteriniche (adenomi 8,9%), mentre nell’1,6% dei casi si trattava di polipi maligni. Clinicamente i pazienti con lesioni colesteriniche presentavano più spesso alterazioni del profilo lipidico. All’analisi multivariata fattori predittivi di malignità erano un’età > 50 anni, dimensioni superiori ai 10 mm, la presenza di sintomatologia e la coesistenza di litiasi. Xu propone un algoritmo nel quale sono candidati alla chirurgia non solo coloro con polipi > 10 mm,sintomatici o con litiasi associata, ma anche quei polipi tra 5 e 10 mm in soggetti con età > 50 anni e solitari.

Nel caso di polipi multipli la strategia, secondo alcuni, si basa sulle dimensioni del polipo di calibro maggiore (Wiles). Come detto i polipi a maggior rischio sono quelli solitari, ma alcuni autori in analisi abbastanza datate (1998) considerano l’esistenza di una indicazione alla chirurgia quando ci siano polipi multipli in numero inferiore a tre, indipendentemente dalle dimensioni (Shinkai).
Wiles propone un algoritmo che conferma le osservazioni di McCain: conferma la colecistectomia dei polipi con diametro > 10 mm; in quelli inferiori ai 10 mm in primo luogo si valuta l’esistenza di una sintomatologia che riconduca alla colecisti; se la colecisti si ritiene sia collegata ai sintomi propone la colecistectomia (Marangoni); se la sintomatologia è assente ci si basa sull’esistenza di fattori di rischio quali l’età > 50 anni, la coesistenza di una colangite sclerosante (Marangoni), la etnicità indiana, la presenza di un polipo sessile ed un ispessimento parietale > 4 mm. In caso di presenza di qualcuno di questi fattori, se il polipo ha diametro < 6 mm si propone una osservazione periodica; se il diametro è tra 6 e 9 mm si propone la colecistectomia; se i fattori di rischio sono assenti, si propone una osservazione ecografica sino a 5 anni; se il polipo aumenta di 2 mm la colecistectomia è consigliata (Wiles).

McCain RS, World J Gastroenterol 2018 July 14; 24(26): 2844-2852
Wiles R, Eur Radiol (2017) 27:3856–3866
Xu A, J Gastrointest Surg (2017) 21:1804–1812
Marangoni 2012 HPB 2012, 14, 435–440
Shinkai H, 1998, Am J Surg 175:114–117

Meno ritrapianti, e migliorie nei ritrapianti per pazienti HCV

Negli ultimi anni la terapia dell’Epatopatia HCV positiva è migliorata. Sino a pochi anni fa il 70% dei pazienti trapiantati per epatopatia HCV positiva presentava già entro il primo anno una epatite cronica C (Song). Nei pazienti trapiantati inoltre tale recidiva procede con una velocità maggiore che nei pazienti immunocompetenti evolvendo in una fibrosi dopo 9-12 anni ed in una cirrosi dopo 20-30 anni. Il 15-20% dopo 10 anni evolveva in uno scompenso epatico o in un tumore epatico (Bunchorntavakul).
Il ritrapianto in questi pazienti rappresenta una opzione complessa che, sino a pochi anni fa, aveva risultati in genere peggiori del primo trapianto.

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Le strategie di trattamento dei pazienti affetti da viremia HCV candidati al trapianto sino a poco tempo fa erano le seguenti: 1) trattamento dei pazienti con cirrosi in attesa di trapianto 2) profilassi antivirale con inizio del trattamento al momento del trapianto e proseguita 3) trattamento iniziato nei primi 6 mesi dopo il trapianto 4) terapia antivirale quando la patologia fosse ormai già presente (Bunchorntavakul).

Uno studio nel 2016 (song) evidenziava che tra i fattori predittivi di buoni risultati dopo ritrapianto per recidiva di una epatopatia HCV, vi erano una assenza di viremia del virus C prima del ritrapianto, una terapia antivirale specifica dopo il ritrapianto, un genotipo virale diverso dall’1, un punteggio MELD < 25 e l’età del donatore del ritrapianto < 60 anni.
I primi due fattori sono quelli che sono evoluti nel tempo in quanto le modalità per ottenere quei risultati sono cambiati; mentre sino a qualche anno fa si utilizzavano farmaci quali l’Interferone e la Ribavirina con una percentuale di eradicazione del virus C del 30% (Bunchorntavakul) ed il cui uso era associato a volte a gravi effetti collaterali, recentemente l’introduzione dei Direct-acting antiviral agents (DAA) ha migliorato radicalmente i risultati. Si tratta di boceprevir e telaprevir e, recentemente, di sofosbuvir e simeprevir attivi soprattutto verso il virus C genotipo 1.

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Con tali farmaci antivirali, la percentuale di ritrapianti per recidiva di epatopatia HCV nel primo anno post-trapianto negli USA è diminuita dal 20% nel 2005 all’1,2% nel 2014 (cholankeril).
Gli ultimi dati indicano che la percentuale di pazienti HCVRNA positivi, cioè con virus attivi, che eliminano il virus con le recenti terapie antivirali, è nettamente aumentata, rappresentando nei pazienti sottoposti a ritrapianto o da ritrapiantare un fattore prognostico positivo.

Song ATW, World J Gastroenterol 2016 May 14; 22(18): 4547-4558
Bunchorntavakul, Journal of Clinical and Translational Hepatology, 2014 vol. 2 | 124–133
Cholankeril G, J Viral Hepat. 2017;24:1194–1195
Croome 2018 AJT proof

Diverticoli Duodenali

Si tratta di una patologia nota sin dal ‘700 (Yeh). Il duodeno è la seconda sede più frequente di comparsa di diverticoli. Il 62% di essi e comunque i ¾ di essi (Kella) sono siti nella seconda porzione duodenale, quella discendente, e si manifestano dopo i 50 anni (Kella). Sarebbero due volte più frequenti nelle donne che negli uomini (Kella).
Essi sono riscontrati frequentemente nei reperti autoptici, secondo alcuni nel 22% dei casi, dato che sarebbe confermato dai dati di colangiopancreatografie retrograde (ERCP) (Schnueriger).
Si hanno diverticoli mucosi/sottomucosi e diverticoli totali, formati da tutte le tuniche della parete duodenale (Schroeder).
I veri diverticoli, formati da tutte le pareti del duodeno sono rari; più frequenti i falsi diverticoli (pseudodiverticoli) spesso situati entro i 2,5 cm dalla papilla di Vater (Schnueriger, Kitagawa). La sede frequente dei diverticoli mucosi presso la papilla è data dal fatto che qui esiste una “finestra duodenale” formata da una zona di debolezza della parete dovuta all’allargamento presso la papilla delle fibre muscolari circolari e longitudinali (EMC).
Anatomicamente si distinguono poi i diverticoli esterni (a sede intra o retropancreatica), quelli della faccia libera (diverticoli totali), e quelli interni (dovuti a malformazioni duodenali associati ad un diaframma duodenale, che poi diventa una tasca diverticolare)(EMC).

Solo l’1-2-5% (Glener) – 10% (Kella) dei pazienti con diverticoli duodenali divengono sintomatici, caratterizzati da dolore cronico, compressioni di strutture vicine, emorragie, accumulo di bezoar all’interno del diverticolo, diverticoliti, fistole con la via biliare, perforazioni (Schnueriger). L’interessamento del coledoco o del dotto pancreatico possono dar luogo a colestasi (Sindrome di Lemmel) o a pancreatiti.
La complicanza meno comune ma più grave e che può spingere più spesso alla chirurgia è la perforazione di un diverticolo duodenale, che avrebbe una mortalità del 20% (Glener). Sino al 2016 erano stati segnalati dal 1907 186 casi di diverticoli perforati (Yeh).
I diverticoli interni si manifestano più spesso con quadri occlusivi.

La diagnosi di un diverticolo duodenale può avvalersi di una TAC o anche di una colangio-NMR per evidenziare le relazioni con le vie biliari.
La diagnosi di una perforazione di un diverticolo duodenale può essere posta soprattutto con una TAC. La perforazione in 2/3 dei casi avviene nel retroperitoneo dove si può evidenziare aria o raccolte liquide (Yeh, Majerus). Anche una gastroduodenoscopia (a visione laterale) può rivelarsi utile per identificare la sede della perforazione (Schnueriger) ed a volte una ecografia endoscopica (Kella). Una laparoscopia diagnostica avrebbe una efficacia solo nel 25% dei casi causa la posizione spesso posteriore del diverticolo (Majerus).

Diverticoli solitari ed asintomatici non avrebbero una indicazione chirurgica (Kella). Meno del 5% dei diverticoli possono dare complicanze (Kella) con conseguente chirurgia.
La terapia di un diverticolo duodenale perforato, per la sua rarità, non gode di vere linee guida (Schnueriger). Il trattamento pare possa essere sia conservativo (digiuno ed antibiotici) nei pazienti con scarsa sintomatologia (Yeh), che chirurgico (Glener).
Il trattamento comune alla presenza dei diverticoli è rappresentato dallo scollamento duodeno pancreatico, in una duodenotomia longitudinale di circa 2 cm sulla faccia laterale, una cateterizzazione del coledoco e del wirsung, una pinzatura del fondo del diverticolo che viene evaginato, la sua sezione a livello del colletto, sua sutura in uno o due piani, successiva sutura trasversale dela duodenotomia laterale (EMC, Iida). Importante un drenaggio nel retroperitoneo (Majerus).
Il trattamento chirurgico di una perforazione consisterebbe, dopo una manovra di Kocherizzazione del duodeno, nella exeresi del diverticolo (diverticulectomia) con chiusura in due strati del duodeno. La chiusura semplice comporterebbe però un alto rischio di fistolizzazione, per cui si preferisce a volte associare misure chirurgiche di “protezione” (Yeh). Il rischio di una fistola duodenale, (Glener) determinerebbe infatti una mortalità del 13-30% (Yeh). Si può aggiungere quindi una gastrodigiunostomia con ansa ad omega con enteroentero anastomosi sec. Braun alla base, oppure una anastomosi biliodigestiva su ansa alla Roux oppure ancora una duodeno digiunostomia TT su ansa alla Roux, chiudendo il moncone craniale del duodeno (EMC). Gli interventi più semplici sono quelli effettuati sui diverticoli del margine libero del duodeno.
Nel caso di perforazioni con danno tissutale più esteso o di diverticoli intrapancreatici, sono stati eseguiti anche interventi di duodenopancreasectomia cefalica con conservazione del piloro (Schnueriger, Yeh) nel caso di prossimità bilio-pancreatica, oppure di resezione segmentaria duodenale distale (segmenti 3 e 4) con anastomosi duodenodigiunale TT, a seconda della sede dei diverticoli (Schnueriger).
Recentemente, e comunque sin dal 1994, sono state riportate osservazioni di interventi effettuati in laparoscopia effettuando la diverticolectomia con stapler (Yeh). Tale approccio può essere preferibile soprattutto nei diverticoli laterali (Yeh).
Il sanguinamento da un diverticolo duodenale o l’accumulo di materiale dentro un diverticolo duodenale possono entrambi avvalersi invece di una ERCP.
Nel caso di sintomi ostruttivi del coledoco (colangiti) o del pancreas (pancreatiti) il trattamento più adeguato non sarebbe la resezione duodenale ma una epaticodogiunostomia con una duodenodigiunostomia TL (Schnueriger, Vassilakis, Teven) per escludere il duodeno; alcuni, nel caso di ostruzione biliare hanno effettuato una diverticulectomia (con stapler, soprattutto se localizzati lateralmente sul duodeno) con coledoco-duodeno stomia robotica (Kella).
Alcuni autori ritengono che nel caso di sintomatologie pancreatico biliari e di diverticoli iuxtapapillari, potrebbe essere meglio una derivazione digestive e biliari, al posto di una diverti colectomia (Teven),
Un’altra possibilità è il trattamento dei diverticoli intraluminali che può essere effettuato per via endoscopica (Yeh) o chirurgica classica con excisione del diverticolo.

EMC Techniques Chirurgicales, appareil Digestif, 40410
Kitagawa S, Intern Med 56:2237-8. 2017
Glener J, Int J Sugery Case Reports, 29 (2016), 100-2
Iida F, World J. Surg., 3, 103–106, 1979
Schroeder TC, Clinical Radiology xxx 2014, e1-e5
Majerus B, Acta Chir Belg, 2015, 115, 310-313
Yeh T-C, International Journal of Surgery Case Reports 28 (2016) 204–210
Kella 2012 J Robotic Surg (2010) 3:249–252
Teven CM, J Gastrointest Surg (2012) 16:1436–1441
Schnueriger B, J Gastrointest Surg (2008) 12:1571–1576
Vassilakis JS, Am J Surg. 1997;174:45-48.

Colecistectomia laparoscopica: casi particolari

Oggi il 90% delle colecistectomie sono effettuate con tecnica laparoscopica. La tecnica ricalca quella della colecistectomia laparotomica nel senso che nel corso dell’intervento è necessario una dissezione del triangolo di Calot.

Calot’s Triangle This is an anatomical space bounded by the common hepatic duct, the cystic duct and the inferior border of the liver.

Per triangolo di Calot, originariamente, si intendeva lo spazio tra dotto cistico, via biliare principale ed arteria cistica; attualmente si intende lo spazio tra dotto cistico, via biliare principale e margine inferiore del fegato: questo spazio è dunque attraversato dalla arteria cistica. Un interessante video reperibile in internet sulla tecnica della colecistectomia laparoscopica è riportato nel link qui sotto. Un particolare interessante è che la arteria cistica è spesso situata sotto un linfonodo presso il dotto cistico (Swanstrom).
Nel corso degli anni il numero delle controindicazioni alla colecistectomia per via laparoscopica è progressivamente diminuito. Rimangono in parte i casi con sospetto di ca. della colecisti, i casi con impossibilità ad identificare correttamente le strutture anatomiche e i casi con gravi disturbi della coagulazione.
Un cenno particolare deve essere fatto su tre situazioni: l’esistenza di chirurgia pregressa; una gravidanza; la cirrosi epatica.
Una chirurgia pregressa si accompagna spesso alla presenza di aderenze che a loro volta sono associate ad una maggiore rischio di conversione, cioè alla impossibilità di procedere per via laparoscopica. Sono ovviamente maggiormente a rischio coloro che sono stati operati a livello dell’addome superiore che non nell’inferiore. In realtà non tutti i pazienti con precedenti interventi chirurgici hanno aderenze, e, al contrario, l’assenza di una chirurgia pregressa non esclude la esistenza di aderenze.
Per quanto riguarda le gravidanze, ogni intervento chirurgico in gravidanza deve essere attentamente valutato; nei primi giorni di esperienze in laparoscopia si pensava che il pneumoperitoneo potesse diminuire il flusso sanguigno all’utero, determinare una acidosi fetale, e comunque una sofferenza fetale; questi rischi probabilmente sono stati sovrastimati. La laparoscopia ha dimostrato di essere sicura anche per il feto. Le indicazioni chirurgiche classiche, in caso di necessità di intervento, dicevano che era meglio aspettare dopo il secondo trimestre di gravidanza per intervenire; oggi si ritiene che si possa intervenire in tutti i trimestri della gravidanza; è necessario comunque tener presente che nel terzo trimestre l’utero ingrossato occupa gran parte della cavità addominale modificando quindi i piani anatomici. Nel caso di pazienti con patologia sintomatica della colecisti, procrastinare l’intervento può essere pericoloso e quindi è consigliabile un intervento chirurgico. Per facilitare l’operazione la paziente in sala operatoria dovrebbe essere ruotata a sinistra per allontanare l’utero dalla vena cava ed il gas impiegato dovrebbe essere mantenuto a basse pressioni; ovviamente la posizione dei trocar deve essere modificata in relazione alla posizione dell’utero.
I pazienti con cirrosi epatica ed ipertensione portale sono a rischio per qualsiasi intervento, non solo per una colecistectomia: il posizionamento degli accessi deve prestare attenzione ad eventuali circoli collaterali superficiali. Un altro rischio è il sanguinamento dal letto della colecisti che potrebbe essere evitato identificando correttamente il piano di scollamento della colecisti, inoltre utilizzando apparecchiature particolari come le pinze bipolari o specifici agenti emostatici come colle di fibrina e simili.

– Lee Swanstrom, 2013, 4a edizione, Mastery of endoscopic and laparoscopic surgery
-http://pie.med.utoronto.ca/tvasurg/tvasurg_content/assets/masterFolders/PB_difficultCholecystectomyModule/module/content/overview_standard/index.html

Emorragia intraepatica spontanea

Una rottura spontanea di una lesione epatica è un evento raro che può mettere a repentaglio la vita del paziente e che deve essere prontamente trattata (Bertacco). 
Dopo gli adenomi, l’epatocarcinoma (HCC) è la seconda patologia che per frequenza può dar luogo ad una complicanza emorragica. L’incidenza di rottura secondo alcuni si situerebbe tra il 3 ed il 15%, o tra il 3 ed il 26% (Singhal), con una incidenza di mortalità ospedaliera tra il 7 ed il 25%, secondo altri tra il 32% ed il 66% e tra il 25 ed il 100% (Yoshida). La frequenza di rottura di un HCC sarebbe molto più elevata in Asia (26%) rispetto all’Occidente (3%) (Yoshida). I dati sulla frequenza della rottura di un HCC sono comunque variabili: in realtà in base ad uno studio Giapponese del 2014 su 50000 casi di HCC, una rottura si ebbe nel 2,3% dei pazienti (Aoki).
La patogenesi della rottura di un HCC non è chiara e potrebbe essere legata ad una alterazione dei vasi afferenti prevalentemente arteriosi, ad uno stato di congestione, ad un episodio di coagulopatia, ad una rapida crescita con necrosi tumorale, sanguinamento intralesionale, quindi rottura della capsula e sanguinamento all’esterno (Singhal, Yoshida). L’emorragia sarebbe più frequente nei casi con funzione epatica maggiormente compromessa. Fattori di rischio per la rottura sarebbero uno diametro maggiore del tumore, un punteggio di Child-Pugh peggiore, un maggiore numero di piastrine, una età inf ai 60 anni e nei pazienti HBsAg positivi (Aoki). Nel caso di Epatocarcinomi, si sono avuti casi di rottura anche in seguito a TACE o in trattamento con Sorafenib.
Un emangioma invece (Moccheggiani), in uno studio su 157 angiomi con diametro > 4 cm, avrebbe un rischio di rottura del 3,2%, se superiore ai 4 cm di diametro; negli emangiomi con diametro < 4 cm, il rischio di rottura sarebbe nullo; invece, sarebbe del 10,8% per gli emangiomi giganti (> 4 cm) se periferici ed esofitici; e dell’1% per gli emangiomi giganti centroepatici. Il rischio sarebbe maggiore per gli emangiomi nel lobo sn rispetto a quelli siti a dx (Yoshida). Altri ritengono che vi sia maggior rischio in donne giovani, rispetto agli anziani, con lesioni di diametro di almeno 11 cm, prima di una gravidanza oppure all’inizio di terapie a base di estrogeni o anticoagulanti (Donati). Comunque la rottura spontanea di un angioma è molto rara.
La frequenza di emorragia degli adenomi è, come detto, elevata, essendo intorno al 14% (Nault, in uno studio su 411 pazienti) o, secondo altri del 15-20%. Un fattore di rischio sarebbero le lesioni con diametro superiore ai 5 cm, ma si sono avute emorragie anche da lesioni più piccole.

In caso di rottura di un HCC la mortalità sarebbe del 20% e comunque elevata (Singhal) soprattutto nei pazienti cirrotici.
Clinicamente il sintomo più frequente è il dolore acuto e lo stato di shock (Yoshida, Orcutt).
La diagnosi di una massa emorragica come un epatocarcinoma rotto è difficile: alcuni autori (Singhal) nel caso di rottura di un HCC parlano dell’esistenza alla TAC contrasto in fase arteriosa dell’”enucleation sign”: si evidenzierebbe cioè una discontinuità della superficie del fegato in una lesione ipercaptante e centralmente ipocaptante come da necrosi.
Il trattamento consta di due fasi: 1) il controllo dell’emorragia (resezione chirurgica d’urgenza, embolizzazione arteriosa ossia TAE, packing, sino al trapianto; una embolizzazione arteriosa sarebbe efficace nel controllo dell’emorragia nel 53-100% dei casi (Yoshida). 2) il trattamento definitivo del tumore.
Una resezione chirurgica in primis in urgenza non è sempre consigliabile (Yashida) per le condizioni del paziente al momento dell’emorragia; secondo alcuni tale strategia ha una mortalità ospedaliera del 16,5-100% (Yashida); spesso il trattamento è preferibile effettuarlo in due tempi; in un paziente emodinamicamente instabile il trattamento iniziale può consistere in una Embolizzazione arteriosa (TAE) o nel cosiddetto packing (compressione con garze) o nella legatura periferica dell’arteria epatica propria (Yashida) se una TAE non è efficace. Alcuni autori, a scopo emostatico, hanno effettuato il controllo della fase acuta con una Radiofrequenza circonferenziale all’area emorragica (Bertacco).
Il trattamento migliore in urgenza è considerata la TAE in quanto una laparotomia in urgenza in questi pazienti è sempre una procedura a rischio (Yoshida). Tale procedura potrebbe anche non essere ben tollerata in pazienti con punteggio di Child-Pugh avanzato, con un MELD > 10, o pazienti con trombosi portale; nel caso la TAE non sia effettuabile è necessaria una chirurgia in urgenza che consisterebbe in un “packing” con contemporaneo intermittente clampaggio portale.
Il secondo tempo del trattamento, quindi successivo e definitivo, è la resezione chirurgica in elezione. Questa può effettuarsi anche dopo qualche mese. La resezione chirurgica in due tempi (cioè p.e. dopo una TAE), se confrontata con la resezione immediata, presenta una mortalità ospedaliera molto più bassa (0-9% rispetto a 50%)(Yoshida).
La sopravvivenza dei pz con rottura di un HCC, in base ad un ampio studio di Aoki in Giappone nel 2014 su 1106 HCC con rottura spontanea, è inferiore a quella di pazienti con HCC senza rottura: la sopravvivenza a 5 anni è del 13% vs 45% rispettivamente nei pz con HCC rotto o integro. Di per sé quindi la rottura di un HCC è un fattore prognostico negativo (Yoshida).

Mocchegiani 2016, Dig and Liver Dis, 48:309-14
Bertacco A, Journal of Medical Case Reports (2017) 11:54
Singhal 2016, J Clin Exp. Hepatology, 6,335-6
Yoshida 2016, hepatology Research, 46:13-21
Orcutt 2016, Jama Surgery, 151 (1):83-4
Donati 2011, J Hepatobiliary Pancreat Sci, 18:797–805
Aoki T, 2014, Ann Surg, 259:532–542
Nault JC, Gastroenterology 2017;152:880–894